martedì 8 maggio 2012

DA MARINELLA A BALAI (tra fede e avventura)





DI
GAVINO PUGGIONI





Gavino, plebeo, era cresciuto in un ambiente militare rigido, ai tempi
di quel Diocleziano, Imperatore di Roma e di tante altre province e
non solo, il quale si era arrogato il diritto divino delle persecuzioni
avverso quei poveri cristiani, sparsi ovunque, che incominciavano,
davvero, a credere in una unica Fede, dando così corpo e voce alla
futura verità di Gesù Cristo.
A diciotto anni era un giovane aitante e fiero, fiero anche del suo
stato, che assumeva o avrebbe assunto, più tardi, grande importanza
nella sua vita.
Tant’é che, nelle gerarchie di allora, il passaggio a tribuno non
tardò ad arrivare, con grande compiacimento dei genitori e dei
parenti tutti. Egli ne fu contento, benché sapesse che molti di quei
plebei che difendeva o condannava, avevano ragioni e atteggiamenti
contrari all’Imperatore.
In terra italica non ebbe onori, ma quel Diocleziano pensò bene di
procurargliene molti, almeno sulla carta papirea.
Lo inviò perciò, e ufficialmente, nell’Isola di Sardegna, dove
erano e arrivavano molti seguaci del primo Cristianesimo.
Ogni giorno, dalla Trinacria e dalle sponde dell’Africa,
sbarcavano quei derelitti, perché perseguitati a causa delle loro
credenze religiose.
Gavino, comunque, ne fu felice, di questa missione; la accettò e la
rispettò come un ordine quale esso era e, dopo, in fondo, lui era un
militare, un soldato di Roma, a cui nulla poteva essere negato.
Arrivò a Turris con pochi soldati, ma con ordini precisi.
Combattere i ladroni e distruggere tutto ciò che era nato e stava
nascendo attorno ai sostenitori di quel nemico, non armato, che era
Gesù Cristo.
Turris, allora, era una bella cittadina, che allungava dolcemente
una sua proboscide verso il mare, quasi a voler spiare di mostri o
nemici in arrivo da altri mondi.
Si estendeva per poche miglia, a nord-ovest e sud-est, con
agglomerati antichi, scavati sotto le rocce, e con costruzioni moderne,
richiamanti, tutte, gli stili e le forme di Roma imperiale.
Di queste ultime facevano parte le terme e, senz’altro, anche un
bel palazzo che la storia vuole sia appartenuto al governatore
Barbaro, di Sardegna e Corsica.
Gavino, col suo drappello di soldati, arrivò lì e si presentò alle autorità.
Fu ricevuto e accasato, come si doveva ad un cittadino romano
e si mise subito al lavoro, armato di tutto punto, impettito
dall’incarico appena affidatogli.


Camminò, strade larghe, lastricate, polverose.
Incontrò pastori con le greggi, contadini con la vanga, dietro
l’aratro, cavalieri che andavano o tornavano dal lavoro nei campi.
Li salutò tutti e tutti lo salutarono con deferenza, perché si vedeva
che era uno di fuori, venuto a fare chissà cosa.
Non vide in loro, sconosciuti e più di plebei, atti o movimenti che
facessero venirgli alla mente cose contrarie al mandato, cui lui
doveva attenersi. Si attivò tutti i giorni in queste lunghe passeggiate
di controllo, non avendo scoperto alcuna malefatta, né odio verso
l’autorità costituita. Gli abitanti di quella città, però, non sapevano, o
ignoravano, che diversi Editti imperiali ingiungevano ai governatori
di stroncare sempre, sul nascere, l’ideale cristiano, di imprigionare e,
quindi, ammazzare vecchi e nuovi credenti in Gesù.
Gavino, di questo, era a conoscenza, ma in Turris, anche se di
quella gente era popolata, non sembrava vi fossero grosse
concentrazioni o palesi dimostrazioni di quella fede. Forse, ognuno
se la teneva per se, non la esternava pubblicamente; la inculcava,
magari, ai giovani figli e ne andavano orgogliosi.
Un giorno, Gavino venne invitato a palazzo, dal governatore
Barbaro. Fu accolto con onore e rispetto, presentato agli altri notabili
commensali, circondato da ancelle procaci e da abbondanti cibo e
vino. Pareva soddisfatto, anche se a tale sfarzo non era abituato. La
sua famiglia era modesta e morigerata, non c’era mai stata
l’abbondanza, figurarsi la lussuria.
Osservava, mentre banchettava e parlava con un funzionario,
quanti lo circondavano. Tutti avevano gli sguardi protesi verso quel
piccolo imperatore, smodatamente assiso su una grande seggiola di
legno, coi braccioli, tutta ricamata e intarsiata di piccoli animali
feroci, nell’atto di aggredire. Aveva le vesti rosse, ampie,
drappeggiate anche queste in oro, coi ricami degli dei adorati e ogni
suo movimento era seguito con ansia, quasi si aspettasse una
benedizione.
Alla fine, al cenno di una guardia, entrarono due soldati che
precedevano due prigionieri, due disgraziati, che erano stati sorpresi
a rubare.
Dietro di loro, un lungo banco fatto di aculei di ferro, un po’
dritti, un po’ storti.
Nella sala, tutti ammutolirono; il gozzoviglìo cessò per dar posto
alla nuova scena, che nuova non era se non per Gavino.
Barbaro riuscì a mettersi in piedi, allungò lo sguardo beffardo e
mellifluo sopra tutti gli astanti e annunciò:
- Soldati di Roma, miei fratelli, questi due delinquenti si sono
macchiati di un grave crimine: hanno rubato e, dopo, hanno
ingiuriato il nostro Imperatore, rinnegando anche i nostri Numi.
Saranno puniti e straziati sopra quel tavolo, affinché il loro dolore
serva d’esempio a quelli che non osservano le leggi di Roma. -
Gavino sapeva delle persecuzioni, degli imprigionamenti senza
ragione, ma, data la sua giovane età, non aveva mai assistito a questo
genere di spettacolo.
Ne rimase inorridito e, allo stesso tempo, impietrito, ché lui era
un soldato. Non mosse la più piccola parte del corpo, anzi i suoi
occhi guardavano con fissità lo smembramento di quei due suoi
simili, che, poveretti, riuscivano a non emettere un sia pur labile
lamento.
Il corpo vivo nell’anima morta.
Fissava quello spettacolo, mentre gli ospiti si muovevano,
giudicavano e, provocatoriamente, passavano al cospetto di quei
disgraziati, sfidandoli con la codardia, con nullessenza umana, con la
forza spavalda di chi é sicuro di averla e invece non ce l’ha.
Il giudice s’era assiso nel suo scranno e, forse, non vedeva più
quello che attorno gli accadeva, tanto alti e penetranti erano
diventati i fumi divini.
L’aria era diventata cupa e pesante; le torce, ancora accese,
illuminavano facce stravolte dalla sazietà; corpi scomposti, poggiati
sui giacigli di pietra, allucinati e incoscienti.
Le abbondanti libagioni avevano sortito il loro effetto, ma di
questo nessuno si accorgeva, tranne Gavino, che, ritto come un palo,
scrutava, e pensava a quanto male si stava producendo, in nome di
una giustizia che lui ancora non conosceva e che non avrebbe voluto
conoscere.
Immagazzinò tutte quelle immagini, cercò di dar loro un senso,
una ragione, una sia pur piccola, esile giustificazione. Non ci riuscì e,
allora, abbandonò quel baccanale, confuso e offeso nella dignità di
uomo e di soldato.
Prese la via di casa, ansante, come di corsa, sudato e pensieroso.
Non sentiva nemmeno la spada che sbatteva, dura, sull’anca sinistra;
gli sembrò di non incontrare anima viva, fino a Monte Angellu.
Riposò con allucinazioni e laceranti mal di capo, finché il sonno
sopravvenne.
All’alba uscì e si fermò su un cocuzzolo di terriccio arido, che gli
permetteva di vedere e spaziare sull’intera Turris.
Era la prima volta che ammirava quel posto dove era stato
mandato.
Gli abitanti già si muovevano per il lavoro, chi verso i campi, chi
verso il mare. Non notava niente di straordinario, anche se, di tanto
in tanto, gli apparivano, improvvisi, lampi disegnati da quella
visione truculenta della sera precedente.
Rimase lì per molto tempo a vagliare l’accaduto e vegliare su se
stesso, pur non essendo quello il suo compito.
Dopo prese il cavallo, ordinò a due suoi soldati di seguirlo, verso
la campagna, verso l’interno, avendo però, sempre, sulla loro destra
l’isola dell’Asinara.
Subito si imbatterono nella foce di un grande fiume, dall’acque
limpide e allegre, ai cui margini erano tante donne, corpulente e
chine a lavare i panni su pietre levigate. Molti bambini giocavano a
rincorrersi e a lanciar sassi, più lontano possibile.
L’attraversarono senza difficoltà e cavalcarono su un grande
ponte, dalle sette arcate, da dove si poteva vedere tutto il golfo.
Spettacolo meraviglioso. Avevano davanti il mare e, alle spalle, il
verde della campagna, i boschi incontaminati e pinete a perdita
d’occhio.
Gavino, tuttavia, non dimenticava che era un soldato di Roma e
decise di inoltrarsi nella boscaglia, a fare un giro di ispezione.
Quella terra doveva essere molto fertile, perché vi pascolavano
molte pecore, buoi e vacche allo stato brado.
Videro daini e cervi, che scappavano al loro incontro.
Più addentro, incontrarono tre ragazzi, tre pastorelli, che
custodivano, da lontano, le greggi ed erano armati di robuste fionde,
con le quali, caricate a pietre, cercavano di prendere uccelli che
volavano e starnazzavano sopra il loro capo.
Si fermarono, i tre soldati romani, scesero dai cavalli e
incominciarono a parlare con quegli indigeni, i cui nomi erano
Giovanni, Lussorio e Antioco.
- Dov’é la vostra casa? - domandò Gavino
- A qualche miglio da qui - rispose Giovanni
- E dove sono i vostri padri? -
- A lavorare nei campi, a raccogliere il grano! - esclamò Lussorio,
fratello di Antioco e cugini entrambi di Giovanni.
Gavino si incuriosì e, visto che il sole era ancora lontano dalla
mezza, decise di arrivare fino alle abitazioni di quei contadini.
A metà strada, i tre notarono, in un anfratto roccioso, coperto da
un folto fogliame di ghiande, un gruppo di donne, assise in circolo
su pietre chiare, che parevano piangere.
Si avvicinarono e ascoltarono. Piangevano e pregavano.
- Gesù, dacci la forza di sopportare questa disgrazia! Lasciaci la
speranza di rivedere la nostra Anania, troppo giovane e bella, per
averci abbandonati! -
La più anziana di esse, al centro, elevava le braccia al cielo e
invocava il Signore, dicendogli di portar via lei, ormai vecchia, e
restituirle la loro figlia.
- Gesù, Gesù vieni da noi, fatti vedere, ti aspettiamo! -
Gavino scese da cavallo, fece due giri di briglia ad un ramo lì
vicino, e si accostò alle donne, salutandole.
- Buongiorno! -
- Non é un buon giorno, per noi, signore! La nostra famiglia,
oggi, é in lutto per questa figlia nostra che ci ha lasciato. E’ caduta,
stamane presto, nel greto del fiume, ha sbattuto la testa e, dopo, é
annegata. Oh! Gesù, proteggi la nostra Anania e tutti noi! Gesù, falla
vivere ancora, non ce la portar via! -
Gavino ascoltò in silenzio quei lamentii, pur capendo che quelle
donne erano cristiane e, non solo, imploravano continuamente il
nome di Gesù, senza alcuna paura.
Disse che era un soldato romano, mentre gli altri due si
avvicinavano, minacciosi.
Udito chi erano, le donne ammutolirono, si scambiarono sguardi
che promettevano niente di buono, si issarono e, piangenti, col corpo
della congiunta, ripresero la strada verso casa.
I soldati le seguirono in rispettoso silenzio, per due miglia circa.
Superato un promontorio, apparvero le abitazioni e si avvicinarono
con circospezione.
Vennero loro incontro altre donne, che non sapevano della
disgrazia e ne furono informate. Scomparvero tutte con l’estinta, per
riapparire, poco dopo, in gramaglie, pronte a dare l’ultimo saluto. Si
presentarono alcuni uomini, per lo più, anziani, barbuti, ma eretti
nella schiena e nello sguardo, ché loro il lavoro dei campi l’avevano
lasciato, ora, ai più giovani.
- E voi chi siete? Da dove venite? - domandò Pietro
- Noi siamo soldati romani, io sono Gavino e, per ordine del
Governatore Barbaro, stiamo controllando tutta questa pianura. -
- E perché? E cosa state controllando? - incalzò quello.
- Controlliamo che non avvengano ruberie e che venga osservata
la legge di Roma! -
- E cos’é la legge di Roma? -
- E’ la legge dell’Imperatore Diocleziano, che non ammette il
ladrocinio, la falsità e la religione cristiana, quella predicata da Gesù
Cristo! Voi cosa ne sapete? -
Quest’ultima frase, Gavino la esternò quasi meccanicamente,
simile ad un ordine, anche se non voleva esserlo.
Pietro si rivolse ai suoi vicini, ma non parve preoccuparsi.
- Noi - disse - ci rispettiamo e ci amiamo. Crediamo in un uomo,
da qualche tempo a questa parte.
- Le nostre donne l’adorano e ne vanno orgogliose. Lo invocano,
lo cercano, forse l’hanno trovato e a noi questo piace, perché ci fa
vivere in pace! -
- Chi é quest’uomo? -
- Gesù Cristo! - rispose Pietro, alzando gli occhi al cielo.
I due soldati si fecero molto dappresso, ma Gavino li fermò, con
atto deciso, anche se l’ordine di arrestarli doveva darlo lui.
Quell’ordine non lo diede; spiegò ai suoi subalterni che quelli
erano una colonia isolata di anziani, che non potevano dar fastidio
ad alcuno. Li salutarono e, in quell’istante, le donne piangenti si
avvicinarono e si strinsero ai loro vecchi.
Mentre si allontanavano, rientravano dal lavoro nei campi, una
decina di giovani, chi a cavallo, chi a dorso di mulo, preceduti e
seguiti da una torma di cani latranti.
Gavino seguì quella scena, non se ne compiacque, (non aveva
fatto il proprio dovere?), ma, galoppando, mille pensieri
I’aggredirono.
Si poneva domande e non riusciva a darsi risposte. Osservava le
facce dei suoi soldati, che erano distratti e superflui.
Ma lui continuava a macerarsi il cervello.
Cosa aveva fatto? Cosa aveva visto e sentito?
Perché non era stato capace di comunicare, almeno, se non di
applicare e far rispettare la legge di Roma?
Era in confusione, badava alla strada di ritorno e anche lui
andava distraendosi, soprattutto per la campagna, per il verde, per
gli animali che, liberi, correvano e si abbeveravano ai piccoli
rigagnoli e sparivano, dopo, per la fitta boscaglia.
Ora si interrogava e pensava a quello che aveva appena sentito da
quegli uomini e quelle donne.
Non si spiegava, ma meditava.
Perché doveva punire il prossimo suo, in una terra così lontana
da Roma, soltanto perché credeva nel suo Dio?
Non erano ladri, né assassini; anzi lavoravano tutto il giorno e di
quello che producevano, tanto sarebbe andato alle legioni
dell’Imperatore. Ma pensava anche al governatore, il quale voleva
sapere ed essere informato su tutto quello che accadeva fuori del suo
palazzo.
E qui ebbe un sussulto. Si fermò e spaziò lontano.
Pensò al soldato che era, alla fiducia riposta in lui dai superiori e,
adesso, tradita, anche davanti a testimoni, quali erano i suoi
compagni d’arme.
Si rabbuiò e non fece caso all’incontro di tanti pastori e contadini
che si avviavano alle loro case.
Un mendicante osò porsi a metà strada e allungò le mani scarne
per chiedere un tozzo di pane. Aveva un drappo scuro addosso e un
cappuccio, sì da farlo apparire come un ladro. I due lo strinsero fra le
groppe dei cavalli, quasi a schiacciarlo e mortificarlo ancora.
Gavino vi si oppose gridando e liberando il poveretto.
Arrivarono a Turris. Gavino era stanco, molto stanco; una
stanchezza che sentiva vieppiù in testa, dove sembrava si fossero
dati appuntamento cento martelletti.
Era giovane, pieno di speranze, aveva un incarico importante, era
soprattutto un soldato romano; ma tutto questo, invece di
inorgoglirlo, lo costringeva a profondi pensieri, a lunghe meditazioni
a interrogarsi nell’intimo, di uomo libero o succube di un altro,
magari imperatore.
Si diceva:
Io posso ubbidire a ordini superiori, posso partecipare ad una
guerra, se questa é giusta, posso anche ammazzare il cosidetto
nemico, posso imporre la mia volontà agli sconfitti, per altro
rispettandoli, in quanto più deboli.
Ma per tutti i numi di questa terra, per l’amore che ci deve legare
gli uni agli altri, per il rispetto, per l’umanità, per la sua stessa
crescita, non posso arrestare o buttare in fosse comuni, i miei simili
che credono in un’altra religione, in un altro Dio, diverso dagli dei
romani.
E mentre credeva di continuare a strapazzare la sua mente, udì
uno scalpitio di cavalli avvicinarsi. Andò loro incontro. Erano due
messaggeri del governatore, che lo invitavano a palazzo per l’ora del
tramonto.
Non si meravigliò dell’invito, ma continuò a riempirsi la testa di
altri pensamenti, belli e brutti. Se li tenne con sé tutto il giorno e a lui
pareva di avere nella pancia, non lo stomaco, ma un vero macigno.
S’avviò, mentre il sole gia lambiva il mare, in quell’orizzonte tanto
lontano, eppur cosi vicino, arrivando a Palazzo dalla parte del
grande ponte.
Attraversò alcuni giardini, coloratissimi di fiori, passò davanti
alle case dei patrizi.
Si fece annunciare e i soldati lo scortarono fino al grande salone
centrale.
Gavino, in quel momento, ebbe un cattivo presentimento e si
fermò, ammirando le colonne, gli ornamenti e gli stucchi di quelle
pareti. Erano già accese le fiaccole dal sinistro bagliore, mentre la
sala si andava riempendo di soldati e capitani.
Gallena, una donna bellissima e attraente, gli si avvicinò, ansiosa
di accompagnarlo al cospetto di Barbaro.
Lo fece quasi teatralmente, annuendo e salutando.
Il grande Capo doveva, invece, fare un sermone ai suoi seguaci.
Tutti, in silenzio, ascoltarono.
- Miei fedeli compagni, ho grandi novità da Roma, che diventa
sempre più potente. L’Imperatore ha in massima stima la nostra Isola
e quella di Corsica e vuole che i suoi abitanti siano felici e cultori del
lavoro, dell’obbedienza. Le nostre legioni, in Italia, sono temute e
rispettate, portano ordine e civiltà. Ieri mattina sono approdate due
nostre navi da carico e ci hanno portato circa cento soldati, tre
comandanti, lame, corazze, lance e un nuovo Editto. Voi già sapete
dei Cristiani, che sono quelli che vogliono imporre la nuova religione
di Gesù Cristo.
Ebbene, Roma e i suoi amministratori sono preoccupati.
Sono preoccupati perché stanno crescendo di numero, numero
che non si conosce perché non lo rivelano; si nascondono, ma
predicano dove possono e non hanno paura di niente e di nessuno.
Il nuovo Editto ci impone di combatterli, di scovarli, di arrestarli
e convincerli a credere negli dei di Roma o, isolandoli, condannarli a
morte.
Io stesso, nei prossimi giorni, mi recherò nella vicina Corsica, per
vedere coi miei occhi, come stanno le cose, se vi sono misfatti, e
sentire se questo Gesù Cristo sta creando proseliti anche colà.
Qualcuno di voi verrà con me; gli altri rimarranno a Palazzo, perché
desidero essere informato di quello che accadrà a Turris.
Questo é un ordine e gli ordini bene eseguiti porteranno a voi e
alle vostre famiglie, onori, gloria e ricchezze!
Viva Roma! Viva l’Imperatore! - concluse Barbaro.
- Viva Roma! - all’unisono risposero i molti presenti.
Gavino seguì quel discorso con la massima attenzione e non se ne
distolse nemmeno quando i servi offrirono vino nelle coppe ben
disegnate.
Di lì a poco, apparvero numerose anceIle, con grandi vassoi di
terracotta, con dentro carni di maiale e di agnello, con verdura e
frutta.
Di nuovo cadde il silenzio, poiché le bocche incominciavano a
riempirsi.
Gavino, piano piano, furtivamente, si era andato defilando, dietro
una delle ultime colonne, vicino all’atrio, verso l’uscita.
Si trovò subito in riva al mare e fece un grande sospiro di sollievo
e liberazione, perché e stranamente, a lui, là dentro sembrava di
soffocare.
Aveva fame, allora si diresse a casa. Incontrò Ducio, un contadino
alto e robusto, che, a piedi, tornava da una cava non vicina. Era
stanco e puzzava di sudore, ma anche di fatica, per cui salutò e
proseguì dietro Monte Angellu.
Dopo aver mangiato, Gavino si accostò, fuori, ad una grossa
pietra e vi si assise.
La notte stellata gli permetteva di muovere liberamente lo
sguardo.
Era buio, ma immaginava di vedere tutto e quel tutto, per lui, non
era uno spettacolo bello.
Era tornato ai precedenti pensieri, non voleva abbandonarli,
seppure sapeva certamente quale era il suo compito.
Nel silenzio, gli sembrò di ascoltare e sentire qualcuno, un vocìo,
che, dopo, sfumava in una musica a lui sconosciuta.
Fece ritorno entro le sue quattro mura e si addormentò
subitaneamente.
* * *
Barbaro arrivò in Corsica con due navi da guerra, colme di giare di
olio e vino e quanto serviva per una permanenza più o meno breve.
Con lui portò trenta soldati e cinque schiave; non porto Gallena, che
era la sua favorita.
Questa Gallena, orgogliosa e ambiziosa, era pur sempre una
plebea, ma assurta a quel rango per la sua statuaria avvenenza, per i
suoi intriganti movimenti, nonché per la sua astuzia.
Si aggirava nel palazzo, dalla mattina alla sera, e anche durante la
notte faceva qualche scorribanda d’amore. Era, forse per questo,
molto rispettata; soldati e maggiorenti sapevano ma non dovevano
sapere, come d’altronde Gavino, che evitava quegli incontri, che
casuali non erano mai.
Barbaro, a Bonifacio, godeva della sua lussuria, in un palazzo
messogli a disposizione dai notabili del luogo.
Non erano in molti e i suoi soldati non si allontanavano più di
tanto, per paura di imboscate e rappresaglie.
Poiché anche lì regnava una specie di anarchia, incominciava ad
annoiarsi, essendo quella città poco abitata.
Era popolata, invece, la campagna, dove era molto sviluppata la
pastorizia, con intere vallate colorate di verde, ove erano anche
numerosi branchi di armenti. Era un altro eden da scoprire, ma
arrivando dal mare, da sud, tutta quella costa incuteva paura, per le
grandi e lunghe spelonche che vi si aprivano, a picco sul mare, e che
facevano pensare, di certo, alle prime abitazioni dei Lestrigoni.
In un secondo tempo, arrivarono a Bonifacio altri personaggi di
secondaria importanza, chi fuggitivo, chi naufrago, chi assetato di
conoscenze nuove.
Fra questi, spiccava, per la sua personalita e l’orgoglio mai domo,
un vescovo africano, di nome Gianuario, accompagnato da un suo
fido diacono, di nome Proto. Erano certamente cristiani e venivano
da molto lontano, cacciati dai vandali, privati di ogni loro avere,
esiliati per punizione. Chiesero ospitalità, che fu loro accordata dal
governatore, in cambio, però, della loro sottomissione alla legge di
Roma.
Non fu facile accettare questa nuova condizione, che, tuttavia, per
loro, rappresentava un’ancora di salvezza, per proseguire in quel
cammino di fede, ormai tracciato.
Accettarono anche talune mollezze e comodità, che Barbaro aveva
loro regalato; ascoltarono tutti i sermoni, tutte le ingiustizie e misfatti
posti in essere da quei soldati, che, dopo, venivano elogiati e
premiati, per la fedeltà all’Imperatore di Roma.
Il governatore aveva notato subito l’affabilità e la buona
disposizione dei due nuovi arrivati, per cui non tardò un minuto a
dar loro la massima fiducia, nominandoli ambasciatori suoi in quella
terra, sconosciuta e poco visitabile.
Ogni giorno, alla sera, li voleva ascoltare, facendosi trascinare
anche dai dialoghi forbiti e colti di Gianuario. Il quale raccontava,
essendo lui un viaggiatore, di bellissime terre lontane, di civiltà
antichissime e di quelle all’avanguardia; di guerre vinte e di guerre
perdute.
E tutta questa sapienza coinvolgeva emotivamente la mente e il
corpo di Barbaro, che ascoltava allibito, ignorante com’era. E il più
delle volte, la giornata si concludeva con un invito a cena, in onore di
quei due ospiti, tanto gentili, quanto sottomessi. Almeno così
sembrava.
Gianuario, quindi, sempre accompagnato da Proto, si spostava in
quel territorio, abbastanza liberamente e poteva vederne i suoi
abitanti, laboriosi e silenziosi. Ubbidivano, da sempre, alle leggi della
natura, a queste andavano incontro tutti i giorni e non si
lamentavano.
Scoprirono, quei pastori, le maglie della legge con la presenza,
per altro saltuaria, dei soldati romani, ma non potevano essere
assoggettati, in quanto non formavano mai gruppi omogenei. Isolati,
con le loro bestie, erano in continua transumanza.
L’Africano, contento di questo stato di libertà, a lui sconosciuto,
era anche felice e orgoglioso e lo si poteva notare quando parlava
con quegli indigeni. E non sempre di cose dotte si discuteva,
ammesso che qualcuno ne avesse possibilità. Anzi. Gli argomenti
riguardavano, proprio, la terra calpestata, i pascoli seppure
abbondanti, la difficoltà di incontrarsi e socializzare, di conoscere.
Qualcuno, però, parlò anche di incursioni misteriose, soprattutto
di notte, effettuate da uomini sconosciuti, a cavallo, vestiti di pelli di
capra e armati di bastoni, a volte a forma di lance appuntite. Erano,
questi, molto decisi e audaci, perché razziavano tutto ciò che
incontravano nel loro cammino, uccidendo, anche inutilmente, chi si
opponeva alle loro scorrerie.
Gianuario pensò subito ai Vandali, da lui ben conosciuti in terra
d’Africa e dai quali subì spaventose angherie, costringendolo a fare
l’esule in casa propria, sfuggendo e correndo da un paese all’altro,
tra mille difficoltà e indicibili umiliazioni.
Ma di questo non ebbe a preoccuparsi più di tanto, perché la sua
missione, difficile e pericolosa, non stava incontrando ostacoli.
Poteva parlare quasi liberamente della sua Fede e ciò gli dava
vieppiù animo e coraggio, dimenticando, tuttavia, che anche in quel
pezzo di mondo, c’era un padrone, che voleva essere assoluto, e del
corpo e del pensiero.
Allora si fermava e rifletteva; pensava a quanti suoi simili, ogni
giorno, cadevano sotto i colpi dell’odio, della sopraffazione, delle
ingiustizie e di tutte le eresie. Pensava al suo popolo cristiano, che
non poteva pregare, che non poteva divulgare la parola di Cristo,
perché ve ne era interdetto.
Quel popolo guardava e ascoltava, non avendo altra possibilità.
Gianuario continuava per la sua strada, in un silenzio a lui
gradito, ma, alla lunga, anche troppo irreale.
Ebbe a fare diverse visite nella residenza del governatore, un pò
per dovere di ospitalità, un po’ perché convocato espressamente a
Palazzo, per sentire da lui quali avvenimenti, quali novità si
andavano, man mano, presentando. Il governatore stesso,
d’altronde, aveva riposto in lui grande fiducia, poiché sapeva della
sua cultura, della sua grande predisposizione ai rapporti umani,
soprattutto verso gli sconosciuti.
Di questo si inorgogliva, poiché il grande capo romano non aveva
ancora capito che lui era un cristiano, un grande cristiano, che
combatteva senza armi, che credeva in un solo Dio, che odiava i
vandali, Diocleziano e tutti i romani guerrieri e predatori come lui.
Seguiva quell’unica via della Fede, ormai delineata dall’amore
verso il prossimo, compresi i suoi nemici, che non sapevano.
A Bonifacio erano arrivati ancora molti fuggiaschi, da oltre il
mare Tirreno, dalle coste e dai litorali di Roma, dove le leggi
dell’Imperatore erano diventate più dure e persecutorie. Fuggivano a
costo di qualsiasi sacrificio e arrivavano, derelitti e schiavi, legati in
catene e affamati, su navi mercenarie, assieme a soldati, mercanzie
varie e gente come loro, credenti e miscredenti, comunque
condannati all’esilio.
Gianuario conobbe molti di questi e non ebbe a meravigliarsene,
avendo lui già subito e sopportato la stessa sorte.
Impegnò se stesso e l’amico Proto in una nuova azione di
contatto, di conoscenza, di alleviamento del dolore immenso di quei
disgraziati e lo andava facendo alla luce del sole, fidando piu sulla
protezione del Signore, che nel silenzio, nella noncuranza, nel non
controllo, da parte di quei pochi soldati, impegnati a proteggere
quell’uomo divino.
Ma non durò a lungo quel lavoro d’amore e di pietà.
Fu interrotto bruscamente una mattina, all’alba, mentre, in un
pianoro nascosto da rocce e alberi, alcune decine di seguaci stavano
ascoltando la parola di Gianuario, che teneva sulla mano sinistra una
grande croce di legno e, con la destra, faceva ampi segni di assenso
verso quella povera gente, che già l’adorava.
Soltanto pochi centurioni irruppero in quell’angolo, sembrato
inaccessibile; consegnarono all’Africano un comunicato di Barbaro,
scomparendo nel nulla, senza minaccia alcuna.
Gianuario finì la sua predicazione, non incoraggiando alla
ribellione quei senza patria, né terra, né dignità, ma invitandoli a
sopportare, ad amare, a capire quel periodo di vita disgraziato, a
rafforzare l’unione fra di loro, a credere in un domani più felice, più
libero dai tiranni, più vicino al Signore.
Andò via da quel luogo ad ora tarda, molto stanco, con la mente
confusa da pensieri che finivano per opprimere anche il suo fisico,
ben abituato a piu pesanti offese.
Lo seguiva sempre il fedele Proto, pronto a tutto, a tutti i sacrifici
che quella vita richiedeva. Parlava poco, ma era attivo comunque,
per tutte le necessità pratiche. Era un gran lavoratore, credeva a
quello che stava facendo, adorava il suo Vescovo e a molti, quando
capitava, parlava in sua vece. Credeva fermamente nell’avvento di
Gesù Cristo e si dichiarava suo fedele e umile servitore.
Il giorno seguente a quell’avviso, Gianuario doveva recarsi a
Palazzo.
Vi andò quando il sole stava per prendere la via del tramonto e la
luce era ancora vivida, con un vento gelido che spazzava contrade e
alberi.
Di fronte all’ingresso principale c’era una gran calca di persone,
qualche soldato armato e un vocio che tardava a farsi capire.
Avvicinandosi, s’accorse che molti uomini e donne sostavano per
terra, o sui gradini, in posizione eretta o prostrati, in atto di chiedere
qualcosa.
Gianuario voleva capire cosa stava avvenendo, ma non si
capacitava.
Era incredulo, ma lui, quello spettacolo, l’aveva già visto, non era
certo una visione.
Si fece spazio attorno con forza, riconobbe qualcuno che aveva
partecipato alle sue prediche clandestine, lo salutò solo con lo
sguardo, guadagnando l’interno del palazzo. Si spinse ancora oltre,
fino ad arrivare sul retro, ove era una specie di anfiteatro naturale,
fatto di rocce, di granito e di gradoni, con al centro un grande campo
incolto.
Questo campo, ora, era popolato di plebaglia, ammucchiata tra le
pietre e il fango, che piangeva e urlava. Ancora tanti soldati, ma
anche mercenari, muniti di bastoni e strisce di pelle grezza, che si
affannavano a frustare e pestare quei disgraziati indifesi. Ai lati,
insospettati, si aggiunsero molti guerrieri armati, che incitavano alla
violenza gli altri, fino a far apparire il tutto come una bolgia
infernale, da cui vivi non si può uscire.
Gianuario e Proto erano impietriti, increduli e, allo stesso tempo,
coscienti di quello che stava avvenendo.
Non avevano visto ancora Barbaro, che pareva attendessero.
I due non parlarono, ma si resero conto, ben presto, di quello che
stava per accadere. Non si erano accorti, però, che tre centurioni e
diversi soldati stavano accerchiando proprio loro, con fare
minaccioso e inequivocabile.
Le urla di disperazione e di dolore, i colpi di frusta e di bastone,
coprivano ogni espressione orale, per cui bisognava essere molto
vicini per essere intesi.
- Gianuario! Proto! - ordinò uno dei due capitani - dovete
seguirci in silenzio, al cospetto di Re Barbaro!
Annichilirono e già pensavano alla parola Re, che guel
governatore si era abusivamente attribuita.
Lì, a Bonifacio, non avevano mai visto tanta folla, per di più
vociante e scalmanata. Ma dove l’avevano trovata? Un
rastrellamento? Un boato quasi di gioia e un brusio continuato, alla
fine misurato, accolse l’arrivo di Barbaro, su un falso trono calcareo,
vestito dei suoi gradi, pomposo nel portamento viscido e scomposto.
Rimase in piedi e spaziò, con lo sguardo, in quell’arena,
accomodante e sprezzante, come dovesse distribuire pane e acqua ai
bisognosi.
Un grigio silenzio si impadronì di tutto e di tutti. Non volavano
neppure cornacchie o rapaci.
- Gente di Corsica! - esordì il divino -
Io volevo amarvi, volevo faceste parte del mio grande popolo;
volevo la vostra ricchezza, ma, prima ancora, la vostra libertà, la
vostra felicità. Vi ho seguito nei vostri spostamenti. Eravate pochi,
ma laboriosi. Avete calpestato una terra che é un dono dei nostri dei,
che ci proteggono. Questa terra é grande, e fertile; avete a
disposizione molte capre, pecore, buoi, vacche, cavalli e i frutti che
ogni giorno il nostro Imperatore vi fa cogliere. Avete una terra che é
come una grande madre, che si prende cura dei propri figli !
Faceva fatica a parlare e, di tanto in tanto, si voltava verso i suoi
capitani, quasi a chiedere aiuto, a sorreggerlo in quell’impresa, assai,
assai difficoltosa. Cambiò tono alla voce, la fece più cupa e
penetrante.
- Tutto questo tesoro, ora, voi, l’avete perduto!, non siete più
degni di vivere con esso, perché l’avete rovinato, spaccato, derubato,
reso polvere, di nessun valore...... non meritate.... - già sproloquiava,
mentre un leggero mormorio si alzava, verso le prime ore del vespro.
- Guardatevi in faccia! non siete degni della vostra stessa
vicinanza; avete tradito voi stessi, ma, quello che più conta, avete
tradito me, le leggi di Roma, l’Imperatore Diocleziano e tutti i nostri
dei! Queste terre non saranno piu vostre! saranno del diavolo e di
tutti quei diavoli che qui sono arrivati e hanno creduto di poter
accendere nuovi fuochi............. -
Quella gente capiva poco o nulla di quel discorso distorto, ma
incominciava ugualmente a preoccuparsi. Quei pastori si spiavano
l’un l’altro, guardavano quel grande personaggio sconosciuto;
guardavano anche verso Gianuario e Proto, che erano stati fatti
avvicinare ai piedi di quel finto trono, sempre controllati da vicino.
Qualcuno, al centro del campo, urlò e inveì contro quel sermone e
fu come un tuono improvviso, solitario. Quel coraggioso fu subito
abbattuto; si sentì un solo lamento e, poi, fu di nuovo silenzio, fu di
nuovo paura.
Altri soldati armati si erano mischiati ai presenti, che non avean
neppure la forza di stare in piedi. Barbaro, trafelato e rabbioso,
riprese il suo discorso:
- La forza del nostro impero é in ogni dove, nel mondo! I nostri
soldati, quando arrivano, sono acclamati e vengono portati in
trionfo; le nostre divinità sono rispettate e adorate!
Voi, gente di Corsica, chi adorate, chi rispettate, chi vi protegge? -
urlò in segno di sfida.
- Gesù Cristo é il nostro Dio! - gridarono alcuni a squarciagola e
pronti, evidentemente, a subirne le conseguenze.
Altri istanti di silenzio, mentre una leggera pioggia aveva preso il
posto del vento gelido.
Numerosi soldati circondarono quei plebei che tanto avevano
osato. Ebbero tante di quelle bastonate e colpi di scudiscio che
caddero, sanguinanti, ai loro piedi. Furono trascinati di fronte al
grande aguzzino, tra insulti, pianti e minacce. Si ribellarono tutti, ma
non mossero gamba, poiché erano lì, a proteggerli con la forza.
Lì vicino, erano anche Gianuario e Proto, presenti assenti.
- Ecco - riprese Barbaro - il vostro tradimento! Ecco la vostra
intelligenza! Ecco la vostra fedeltà!
Noi, oggi, faremo un grande sacrificio! Offriremo i vostri corpi
esausti ai nostri dei, che ci daranno premio e gloria per la vita! Voi,
invece, poveri cristiani, non godrete di nulla, non avrete né gloria, né
fama! avrete la morte, la vostra morte, che voi stessi avete cercato e
trovato! Ammazzateli! Decapitateli e buttateli in una delle tante forre
di questo pezzo di isola ! -
Subitaneamente, Gianuario si fece avanti e scoprì, dal suo
mantello, quella croce che aveva sempre portato, mostrandola a quel
giudice dissennato e affrontandolo solo con la parola.
Ancora silenzio di tomba e attesa febbrile.
- Barbaro! - incominciò l’Africano - tu non hai il diritto di disporre
della vita di questi uomini. Tu non puoi condannare questa gente,
perché ha un solo Dio; tu non puoi, in quanto rappresentante di un
grande Impero imporre una giustizia, errata ed iniqua in tutti i sensi,
abietta e non degna di un popolo che vuole portare civiltà. Non puoi
e non devi uccidere, soltanto perché vogliono appartenere ad
un’altra religione.
La tua, di religione, é atea! Crede nell’acqua, nel sole, nella luna,
nel mare; crede alle pietre, sacrifici uomini e animali in nome di
queste cose terrene. E queste cose terrene, devi saperlo, sono state
create da un solo uomo, che é Dio!
Anzi - e il suo dire divenne piu accorato - sono sicuro che tu non
farai ammazzare questi poveretti. Li devi salvare, perché sarò io a
cadere sotto i tuoi colpi maledetti, sarò io a morire per loro, perché io
sono stato, sono e sarò sempre un sacerdote cristiano, seguace di
Gesù, fin dalla nascita! Non mi fa paura la morte! Sono nato cristiano
e voglio morire da cristiano, salvando i corpi e le anime di questi
derelitti credenti!... -
Barbaro si mosse con impeto verso i suoi ufficiali, mentre Proto si
stringeva al suo vescovo e piangeva.
Le guardie non osarono toccare Gianuario, rimasto in piedi come
una colonna, lo sguardo duro e profondo, sebbene il corpo fosse
pronto a subire quelle indicibili sofferenze, a lui già note.
Furono momenti di grande confusione. Ognuno occupava pochi
centimentri quadrati di quel campo e a nessuno venne in mente di
spostarsi di quel poco che avrebbe potuto causare una reale grave
sommossa. Lo sbigottimento e la paura furono tali, che quei corpi,
eretti o sdraiati, parevano mummificati, mentre quella leggera
pioggia li ripuliva e li rendeva simili a cristalli.
- Isolani! Disgraziati! Poveri cristiani! - si mise a urlare Barbaro -
E’ finito tutto! Sono stato offeso gravemente da uno di voi - e indicò
con la mano il suo accusatore - ma é stata calpestata e umiliata la
nostra grande Roma, con tutte le sue leggi e i suoi ministri!
Vi prometto la mia ira e la mia vendetta, se ciascuno di voi non
ottempererà a quanto andrò dicendo: I miei soldati vi lasceranno
liberi, ritornate alle vostre campagne, alle vostre greggi e armenti.
Dite alle vostre donne e ai vostri figli che il governatore di questa
isola ha perdonato il vostro peccato, ha dimenticato il vostro
tradimento......... -
- Grazie al Cielo! Grazie mio Dio! Grazie Gesù! - esclamarono
all’unisono Gianuario e Proto -
Grazie perché hai illuminato della Tua Fede quest’uomo che ci stà
accanto! Preghiamo, preghiamo per la sua vita, per il suo amore!..... -
- Buffoni, ciarlatani, sobillatori di anime ignoranti! -
l’interruppe Barbaro, che fece colpire i due con continue
scudisciate e anche con colpi di spada ai fianchi.
- Non vi ho dato parola, né mai ve la darò! Ho ancora bisogno di
voi, altrimenti le vostre lingue sarebbero già mozze! Guardie! Portate
via questi due delinquenti e rinchiudeteli in una piccola cella,
sigillata con mille catene! Andate!
E voi, gentaglia! tornate al vostro lavoro! -
Qualcuno plaudì timidamente, ma la gran parte di quegli esseri
umani prese ad andarsene, sommessamente, terrorizzata, così
com’era arrivata.
- Ho anche preso questa decisione - continuò rivolgendosi ai due
malcapitati cristiani - Presto, domani o dopo, comunque con la prima
nave che salperà, vi farò esiliare all’ Asinara, isola selvaggia, piena di
animali feroci e serpenti e con loro finirete i vostri giorni, sicché più
nessuno abbia ad incontrarvi, per sentire quelle eresie e quelle ciance
del vostro Cristo! Portateli via! - e se ne andò furibondo e paonazzo
coi suoi soldati.
Gianuario e Proto accettarono ancora questa condanna e non
pronunciarono parola; si segnarono col segno di Gesù e, sprezzanti,
seguirono i loro carcerieri.
Forse, per loro, cominciava una nuova più difficile vita.
Si resero conto di andare verso un duro isolamento, verso nuovi
sacrifici, che, tuttavia, avrebbero affrontato con forte abnegazione.
Pregarono in silenzio.
* * *
Durante l’assenza del Governatore, avvennero altri fatti e disgrazie,
che interessarono poco le gerarchie, ma colpirono la popolazione
tutta.
A Turris erano sbarcati molti disgraziati ancora, uomini e donne,
provenienti dall’Africa e anche dalla Sicilia.
I più stavano morendo di fame, ma altri erano tremendamente
malati, segnati nel corpo e nella mente. Non furono aiutati e
tantomeno protetti. Anzi, furono scacciati dai soldati, che non fecero
che abbandonarli lungo il litorale, alla loro sorte. Qualcuno si salvò,
miracolosamente si diceva, e andò vagando per la città, ad
elemosinare e pregare anche lui quel Gesù, di cui tanto ormai si
parlava.
Per i cristiani non potevano esserci adunanze pubbliche, però,
chissà come, si trovavano; o fuori della cinta urbana o in grotte
formate dal vento, che offrivano anche, sembrava così, una certa
sicurezza fisica. In queste grotte, sulle pietre, sulle pareti, lasciavano,
tuttavia, i segni dei loro incontri, della loro religione, del loro dolore.
La croce del loro Signore simboleggiava tutta la vita e a quella si
affidavano. Lentamente, ma il velo che li nascondeva si andava
aprendo, lasciandoli indifesi, con la loro Fede, di fronte a quei
soldati, pronti a repprimerli, secondo la legge di Roma.
Gavino venne a conoscenza di questi episodi e se ne preoccupò,
conoscendo la barbarie di alcuni comandanti. Si precipitò a Palazzo e
fu portato a colloquio da Giulio, che era l’alter ego di Barbaro,
assente.
Giulio sproloquì, con rabbia, davanti ai suoi subalterni.
- Ascoltatemi! E’ già da numerosi giorni che in città stanno
accadendo fatti intollerabili. Mi hanno riferito che, ormai, questi
cristiani si fanno vedere dappertutto, si riuniscono dove vogliono,
pregano questo loro Cristo, non accettano i nostri ordini, anche se
taluni, pentiti, ci hanno aiutato a scovare i luoghi delle loro riunioni.
Quanti ne sono stati trovati, tanti ne abbiamo condannati a morte.
Ora basta! Questi disgraziati, comprese le loro donne, devono essere
eliminati uno per uno, così da evitare che questa storia diventi più
lunga. Il Governatore non ne é ancora a conoscenza, ma non voglio
che lo sia, per tutti gli dei di Roma! Ne andrebbe della stessa nostra
vita, se lo sapesse. Perciò vi ordino, soldati di Roma: andate,
prendeteli, anche nel dubbio, e imprigionateli in caverne sicure, fino
al processo. -
- Viva Roma!
- Viva! - risposero i presenti.
Gavino ascoltò, ma trasalì quando si accorse che Giulio si stava
avvicinando a lui.
- Ave, Gavino! Sono contento che ci sia anche tu, arrivato dalla
capitale del nostro Impero da poco!
Come hai sentito, questi cristiani sono sempre più numerosi e
prepotenti. Credono di fare proseliti nel popolo ignorante, perché
raccontano di miracoli, di guarigioni, di visioni celesti e di tante altre
panzanate. Noi, lo sai, dobbiamo far credere il contrario..... -
- Ma noi - interruppe garbatamente Gavino - noi non
possiamo...... -
- Come non possiamo?..! - si meravigliò Giulio.
- Si, ma.... no, perché volevo dire solo che un soldato di Roma
non può ammazzare uno qualunque, seppur plebeo, perché é
sospettato di appartenere a quella religione! -
- Non può? - digrignò i denti quello - Può, può, e come! Nel
nome di Diocleziano si può tutto, perché c’é scritto anche negli
Editti, che sono ordini, che sono legge. Capito?
- Si, si, ho capito! - e Gavino accettò, suo malgrado, quelle parole,
che, nella sua testa, risuonavano come mille campane. Si prese una
pacca sulle spalle e se ne andò.
Si rifugiò a Monte Angellu e lì, spogliato delle sue armi, rimase,
col capo fra le ginocchia, a scavare nel suo animo. Era seriamente
preoccupato per quello che stava accadendo.
- Buonasera Gavino! - era il saluto di Flavia, la moglie di Ducio -
mi sembri addolorato, cos’hai? - Gavino non rispose subito, ma
guardò intensamente quel volto di donna, quasi a cercare qualcosa di
diverso da quello che aveva visto prima, nella faccia di Giulio.
Stranamente la trovò e, allora, si mise in piedi e, intimamente,
ringraziò quella donna, per averlo distratto.
- Flavia, ti saluto, ma dov’é tuo marito? -
- Arriverà tra poco; alla cava bisognava finire, perché alcuni
uomini avevano preteso che lavorassero più a lungo! -
- E perché? -
- Non lo sò! Hanno mandato via noi donne e lì sono rimasti
Ducio, Valerio, Lucio e Vito. -
Gavino credette poco a quelle affermazioni e pregò Flavia di
andare a casa. Si rivestì della sua divisa, prese la spada, montò sul
cavallo e corse al galoppo verso la cava. Quando vi arrivò era quasi
buio e non s’avvide di una grossa pozzanghera d’acqua. Vi finì
dentro, come un bambino, disarcionato e, dopo, scoppiò in una
risata.
Non vedeva alcuno, mentre procedeva a piedi, tenendo la briglia
del cavallo, finché non inciampò in qualcosa di molle e, allo stesso
tempo, resistente. Si fermò, tastò con le mani e si accorse che era un
uomo.
Guardò meglio attorno e vide le facce, stravolte come i corpi, di
quei quattro lavoratori. Erano esanimi e uno si lamentava e
imprecava.
Era Ducio, che piangeva i suoi compagni.
- Chi é stato? Cosa é successo? -
- Oh! Gavino, sei tu? Una cosa infame, potevano ammazzare
anche le nostre donne! Disgraziati! Assassini! Flavia, assieme alle sue
amiche, in nostra attesa e distanti, stava pregando per noi e i nostri
figli, quando sono sbucati da quell’angolo, quattro soldati romani. Le
hanno allontanate bruscamente, con le spade, minacciandole.
Si sono avventati su di noi, che stavamo portando a termine il
nostro lavoro. Ci hanno colpito con la frusta, con la spada, nel corpo,
nelle gambe, alla testa. Abbiamo resistito, urlato, invocato il Signore,
per quella cattiveria che stavamo subendo, ma non c’é stato niente
da fare. Erano belve, maledicevano noi e Gesù Cristo; continuavano,
come forsennati, a colpirci. I miei compagni non ce l’hanno fatta! Io
mi sono salvato, perché ho fatto finta di essere già morto. Che
disgrazia!
Come facciamo per avvertire le loro mogli? -
Gavino non aveva parole, né pronte, né future. Il buio della notte
nascondeva qualsiasi espressione; il silenzio favoriva il dolore e la
paura.
Entrambi si avvicinarono ai tre corpi immobili, li trascinarono al
riparo, in una vicina grotta, coprendone il piccolo ingresso con delle
ramaglie. Non avevano l’animo tranquillo, si sentiva l’ululato di
qualche cane o lupo, forse in amore.
Si spostarono a fatica da quel luogo maledetto e già discutevano
del modo con cui avrebbero dovuto comunicare la ferale notizia alle
mogli di quei tre poveretti.
Camminavano, con Ducio dolorante ad un braccio e alla testa, e
non vedevano nemmeno le stelle, se non quelle della sofferenza. A
causa di ciò, impiegarono più tempo per arrivare alla periferia di
Monte Angellu. Trovarono le donne sulla soglia di casa, e pareva già
sapessero di tutto.
Erano afflitte; nell’attesa avevano immaginato cosa poteva essere
accaduto.
S’assisero e piansero, tormentate, fino all’alba, pregando.
Anche in questo frangente, Gavino non ebbe esitazioni e remore;
si comportò da uomo vero, indipendentemente da quello che era.
Non disse nulla che potesse offendere il loro credo, la loro
disgrazia, pur avvenuta per colpa di suoi compagni.
Divenne muto, ascoltò quei lamenti, guardò quelle donne
disperate, che l’abbracciarono e lui ne provò grande commozione,
fino a dire, ma solo a se stesso, quanta ingiustizia, quanta infamia,
correva in quelle contrade, segnate sì dalla vita e, soprattutto, dalla
morte, quella violenta.
Non cercò giustificazioni; piuttosto si trovò a cercare una sua
pace interiore, che tardava ad arrivare. Era sconvolto e, a volte, si
accorgeva che il suo corpo tremava e dalla febbre e dalle vertigini.
Se ne rendeva conto ma, dopo, si esaltava per lo spirito e la forza
profusa, donati agli altri, così, senza avere niente in cambio.
Questo, nella sua solitudine, lo inorgogliva e, in pari tempo, lo
allegeriva di quei macigno-pensieri, che lo trasportavano, giocoforza,
a quella dura realtà di cui faceva parte.
* * *
Barbaro, ormai re delle due isole, sbarcò a Turris dopo quasi sette
giorni di navigazione. Lui ed il suo equipaggio arrivarono a mezza
giornata di un inverno rigido e infernale, almeno per quello che
avean patito durante la traversata.
Avevano rischiato di morire tutti annegati, in specie fra la
Sardegna e la Corsica, e a nulla erano valse tutte le loro invocazioni a
divinità del cielo, della terra, delle acque. Le loro due navi vennero
spazzate e sconquassate da un mare incattivito, che sembrava non
volere quel peso sopra le sue onde. Persero tutti i beni di
sostentamento, sicché rimasero per qualche dì, privi di cibo e acqua.
I loro corpi, seppure integri, erano segnati, da capo a piedi, dalla
fame, dalla sete, dalla violenza dei marosi, fino a non riconoscersi
nelle loro sembianze. Il grande capo era seminudo, come tutti gli
altri, che ebbero la forza di saper usare i remi soltanto quando era
necessario. Lui non fece altro che imprecare a tutto e a tutti,
implorando, a volte, il suo Imperatore perché intercedesse presso i
suoi déi protettori.
Ebbe la salvezza non tanto per le sue preghiere atee, quanto per la
forza, per il sacrificio dei suoi soldati, i quali, oltretutto, dovevano
salvare la propria pelle.
In città non sapevano del suo arrivo, sicché trovò i suoi sudditi
dediti ad un grande baccanale, per festeggiare la condanna a morte
di molti cristiani, scovati nelle campagne circostanti una estesa
miniera.
Giulio, il suo vice, non s’avvide dell’ingresso a palazzo del suo
capo, fino a quando questi non dichiarò la sua presenza, urlando e
cianciando quanto le forze glielo permettevano.
Ci fu un attimo di smarrimento, ma compiaciuto, dopo, perché
quel baccanale continuò ancora più orgiastico, visto che Barbaro e i
suoi avevano una grande fame e una grande sete.
Finì tutto in un silenzio surreale, fradici di cibo e vino.
Gavino seppe di questo avvenimento, ma non vi diede molta
importanza. Era impegnato in altre ispezioni nei territori a sud e a
ovest di Turris, dove conobbe altri nuclei familiari, che vivevano di
pesca, di agricoltura, che coltivavano la vite. Si imbatté in gente
laboriosa e in molti nuovi cristiani, che osavano anche predicare e
nominare Gesù.
Con taluno, di nome Adriano, iniziò a parlare della famiglia, dei
figli, anche di Roma e delle sue leggi.
- Non conosco alcuno dei tuoi compagni, nessun soldato é mai
venuto da queste parti - disse Adriano e continuò : - Ho sentito
dell’Imperatore di Roma, delle leggi, degli Editti. Ma io devo pensare
solo alla mia famiglia, ai miei figli, a farli crescere sani e laboriosi.
Non vado a Turris da molto tempo; tutto quello che mi serve é qui e
non desidero altro. Mia moglie e le altre donne, e in queste
campagne ce ne sono tante, si dedicano alla cura della casa e dei
bambini; si riuniscono, al tramonto, in preghiera, perché l’amore
prevalga su di noi e tutti quelli che ci circondano! -
- Quale amore? - interruppe Gavino
- L’amore di Gesù Cristo, che ci sta proteggendo e speriamo
continui a farlo! -
- Chi ti ha parlato di questo Gesù? -
- Un grande amico, Ducio, che abita a qualche miglio, verso
Monte Angellu! -
- Ducio?! - esclamò Gavino e già non poteva che approvare, in
cuor suo, quelle parole.
Gavino tornò sui suoi passi, era oltre la zona di Balai e da lì, col
suo cavallo, raggiunse il porto, dove c’era il solito movimento di
barche che rientravano.
Alcuni pescatori, riconoscendolo, gli regalarono dei pesci, che si
affrettò a portare a casa, ma non quella sua. Li donò a Flavia, con la
scusa che voleva parlare con suo marito, Ducio, che arrivò poco
dopo.
Si trovarono a tavola imbandita in cinque, perché si aggiunsero i
figli, Silvia e Simplicio, appena arrivati dal centro del paese.
I due, già grandicelli, erano allegri e scanzonati, ma, nonostante la
presenza di un soldato romano, non esitarono a fare cronaca di
quello che avevano visto.
- Non lontano dal palazzo del governatore, alcuni genitori, padri
e madri, gesticolavano e vociavano contro tre guardie, le quali
tenevano sotto catene due giovani. - prese a dire Silvia - Erano stati
sorpresi - dicevano - a rubare pelli di capra, in un cortile e arrestati.
Si dimenavano e protestavano, nonostante qualche scudisciata. - Le
pelli le avevano trovate abbandonate, fuori da quel recinto e dopo
nessuno le aveva reclamate, gridavano la loro innocenza.
- Ma perché quei genitori erano lì, coi loro figli? - domandò
Gavino.
- Perché i soldati fecero irruzione nelle loro abitazioni! - disse
Simplicio e finì in una risata.
Il pranzo terminò e Ducio fece cenno col capo a Gavino per
uscire.
- Il nostro lavoro alla cava é cessato. Ora ci fanno lavorare in una
miniera di ferro. E’ molto faticoso e siamo sempre controllati da
persone sconosciute. Hanno paura che il materiale estratto venga
rubato e prima di andare via ci fanno spogliare, fino a restare nudi.
E’ una vergogna! anche perché abbiamo saputo che uno dei
guardiani é stato ammazzato poco lontano da noi, per avere rubato
molti pezzi di ferro. -
- Giusto! - esclamò Gavino e subito si pentì di quella
affermazione.
Seguiva Ducio con lo sguardo, mentre raccontava del suo nuovo
lavoro. Ammirava, di lui, la spontaneità, la sincerità, la fiducia nel
prossimo, l’amore verso la famiglia, l’amicizia che gli andava
vieppiù dimostrando. Gli dava, però, molto da pensare, già!
Nell’animo di Gavino stava maturando una pianta che egli, senza
accorgersene, stava alimentando con una linfa nuova, seppure, forse,
vecchia.
Sì, lui era un soldato di Roma, ubbidiva agli ordini, ma non ne
eseguiva uno, che fosse contrario all’etica umana, civile, di rispetto
verso tutti; non aveva mai fatto pesare il suo compito di controllo;
non aveva mai voluto torcere un capello a chichessia, anzi era
avvenuto e stava avvenendo esattamente l’opposto.
Così, pensando, pareva non turbarsi, invece........
Aveva, di recente, una gran paura di incontrare contadini e pastori,
perché questi parlavano, narravano della loro vita, del loro lavoro,
della loro religione, quella cristiana, delle preghiere con le donne,
degli incontri che non erano più clandestini, in casa di questo o di
quello. La voce, il verbo di Cristo, aveva preso una dimensione sua,
incontrollata eppure pericolosa.
Gavino credeva di doversi dare delle risposte, poiché il suo pensiero
volgeva verso altre sponde, che non erano certamente quelle di
Roma. Si chinò su se stesso, graffiò con le mani la terra sottostante,
sfarinò le zolle secche, buttò lontano piccoli pezzi di legna e sassi, ripulì
di tante erbacce quel suolo antico e poco calpestato.
Alzò gli occhi verso il cielo, in quel frangente terso e ne colse la
purità, il silenzio, l’immensità.
La testa gli girava a mo’ di mulinello e avrebbe continuato in
quella guisa, se un’aquila dal volo radente non lo avesse distolto e
portato alla realtà.
- Gavino! svegliati! - si disse e s’avviò al Palazzo.
Vi era animazione in giro; gente che andava, che tornava, che lo
salutava e lo invitava, anche.
Ma lui voleva sapere cosa era successo in Corsica e quali
eventuali novità fossero arrivate da Roma.
Entrò direttamente nella grande sala, che trovò gremita di soldati
e anche di popolani desiderosi di conoscere. Di lì a poco, apparve
anche Barbaro, seguito da Giulio e da un codazzo di comandanti.
- Cari cittadini! - esordì - La nostra missione in Corsica é stata
utile e necessaria. La nostra presenza ha portato un lume di civiltà,
anche se parlare a quelle popolazioni è stato assai difficile. Sono
pochi, a dir la verità, ma lavorano tutto il giorno e non conoscono
regole. Vivono allo stato brado, come le loro bestie, che sono tante.
E’ terra di conquista e di approdi disordinati. Vi arriva gente di
tutte le genie, che si arrogano altrettanti diritti, perché vanno ad
occupare un nuovo paese, non dandosi, però, dei doveri. Noi,
rispettando la legge di Roma, abbiamo cercato di insegnare loro
qualche rudimento di vita civile. Speriamo di esserci riusciti! Però - si
animò ancora - abbiamo fatto piazza pulita di molti cristiani, arrivati
anche colà a parlare di questo nuovo salvatore dell’umanità.
Abbiamo graziato un sacerdote africano e il suo compagno
d’avventura; si chiamavano Gianuario e Proto ed hanno avuto il
coraggio di professarsi pubblicamente seguaci di questa religione. Li
abbiamo puniti con dure pene corporali e li abbiamo cacciati dalla
Corsica, mandandoli all’esilio perenne qui, di fronte a questo mare
splendido, all’isola dell’Asinara, dove ormai non se ne troveranno
più nemmeno le ossa! Noi dobbiamo inculcare nella mente di tutti i
nostri concittadini che le leggi dell’Imperatore Diocleziano vanno
eseguite e rispettate. Solo così il popolo cresce e si civilizza, non con
le prediche, le parole inutili e le promesse di un futuro fatuo, come
fanno questi pochi e miserevoli cristiani! Rivolgo a voi, miei soldati,
quest’appello: uscite dalle vostre abitazioni, controllate tutto e tutti,
soprattutto fuori dalla cinta urbana. I cristiani devono essere
sconfitti, esiliati, meglio se condannati a morte, così che il nostro
cammino nella civiltà romana non abbia più a incontrare ostacoli.
- Buon lavoro e salute ai vostri cari!
Finì quel sermone fra l’esausto e l’esaltato, mentre i più vicini
l’applaudivano e l’abbracciavano.
Gavino ascoltò, confuso, in un angolo del grande salone, dove già
si preparava una lauta libagione. Nonostante fosse in divisa, pochi lo
notarono e questo a lui non dispiacque. Non salutò nemmeno chi
avrebbe dovuto; ne era pieno abbastanza, per tutto quel che avea
udito.
Si liberò di quelle presenze e tornò a casa.
* * *
La nave che trasportava Gianuario e Proto ebbe molte difficoltà.
Partita due giorni dopo che Barbaro li aveva condannati all’esilio
perenne, affrontò una serie infinita di burrasche. Anche questa volta
si salvò per la perizia dei suoi marinai, che erano dei veri lupi di
mare.
Infatti quella era un bastimento più grande di altri, perché adibito
esclusivamente al trasporto di merci per conto di potenti
commercianti. A bordo erano solo mercenari, fuggitivi o
perseguitati, comunque non degni di stare sulla terra ferma. A
comandarli era un omaccione rossiccio, di età imprecisata, molto
esperto, ma molto crudele.
Si chiamava Akaion ed era stato un capo dei Vandali, in Africa.
Gianuario, accolto come esiliato, si preoccupò subito, ricordando le
nefandezze di quelle orde.
Tenne nascosta la sua croce di legno e, col fido Proto, non proferì
mai parola, se non per dire grazie del cibo e dell’acqua che, una volta
al giorno, qualcuno di quella ciurma, porgeva loro.
Nessuno sapeva, ma pregavano sempre, fino a che il sonno non li
avvolgeva, anche quando quella nave veniva sbattuta e quasi
inghiottita dalla furia degli elementi.
Arrivò, salva nei legni, nell’ampio Golfo dell’Asinara, con i
marinai spossati e indeboliti. Il suo comandante fece calare le ancore
in una rada, al riparo dai venti, non lontana da Turris. Fece riposare
il suo equipaggio, impartendo ordini perché i due esiliati fossero
tenuti sotto stretto controllo.
A bordo, però, le cose non andavano bene, poiché quei farabutti,
una volta inoperosi, si trastullavano ad inscenare continue zuffe,
alcune delle quali diventavano violente e sanguinarie. Tre o quattro
finivano sempre a mal partito, tanto da posticipare, più volte, la
partenza.
Akaion, allora, diventava una belva e si buttava, a suon di
bastonate, sopra quei corpi, rendendo ancora più complicata la
ripresa del viaggio. Alla terza notte, calma nel cielo stellato, ma
agitata in quella barca, l’ Africano, forse ispirato, ma più temerario,
decise, con Proto, di tagliare le corde di quella schiavitù.
Si calarono a poppa, di soppiatto, nelle acque gelide e nuotarono
verso la riva, che, poi, non era così lontana.
Toccarono terra, anzi costoni rocciosi e piatti, dopo qualche ora.
Stramazzarono, stremati ma felici, nella battigia, mentre il mare,
poco mosso, pareva volesse accarezzare ancora le loro vesti, pesanti
e ingombranti. La luna guardava col suo faccione bonario come
sempre e li seguiva.
Ma loro non vedevano, non udivano, non parlavano né si
lamentavano. Dormirono fino al giorno successivo e basta.
Poi, il sole vermiglio del tramonto li trovò svegli e febbricitanti.
Sentivano il freddo pungente sulla carne, mal protetta ormai da quei
talari ancora umidi; avevano salvato una sporta contenente ancora
qualche pezzo di pane.... salato. Avevano salvato, in primis, la loro
vita, perché questa non doveva ancora smettere di essere vissuta.
Pregavano e ringraziavano Dio per questo grande dono, mentre
già la notte occupava il suo posto, in quella radura silente e misteriosa.
Gianuario e Proto, comunque, erano sicuri di essere approdati
nelle vicinanze di Turris e soltanto questa certezza dava loro tutta la
forza per resistere, per aspettare, per essere grati a quell’Uomo che li
aveva presi sotto la sua ala protettrice.
Non pensavano più ad Akaion, ma quasi quasi lo ringraziavano
per averli depositati in quella terra, ancor sconosciuta e accogliente.
Frastornati da mille pensieri, furono raggiunti dal sonno, che li ebbe
con sé fino all’alba successiva.
Il risveglio fu come se si fosse aperta una finestra in un paradiso
terrestre. Erano circondati da cinghiali, asini, buoi, uccelli variopinti,
grandi e piccoli, che incrociavano voli sopra i loro corpi, da cavalli al
pascolo, da maestosi cervi e mufloni.
Acuirono la vista, per vedere se nei dintorni vi fossero figure
umane, a cui rivolgere attenzioni e domande; non videro alcuno, ma
decisero ugualmente di muoversi in direzione delle ultime case della
periferia di Turris. Si inoltrarono in una fitta boscaglia, attraversata
mirabilmente da mille rigagnoli d’acqua e ad essi sembrava di non
essere più soli, tanto quegli scroscii erano e creavano qualcosa di
piacevole, una compagnia inaspettata e gentile per tanto tempo.
E arrivarono a cielo aperto, perdendo l’orientamento e
trovandosi, un’altra volta, di fronte al mare, l’arenile lungo e bianco
di Marinella, macchiato di rocce sedimentarie, imbiancate da stormi
di gabbiani in riposo.
Osservavano quello spettacolo e, camminando, non volevano
staccarsene, tanto ne venivano presi. Attraversarono il Ponte
Romano dalle sette arcate, mentre il grande fiume, con fragore, si
tuffava nelle acque del Golfo.
Ciò che a mala pena li copriva, era andato asciugandosi, un pò col
vento, un pò col sole. Ma si era svegliata la fame sotto forma di fitte
allo stomaco e poca, meno resistenza alla fatica.
Di tanto in tanto, i loro sguardi si incrociavano e di nuovo si
allontanavano, alla ricerca di una presenza umana.
Videro, a distanza, una candida barca, a metà tra la risacca e la
spiaggia, dove due pescatori si muovevano. Si avvicinarono e
scoprirono che quei due stavano consumando un frugale pasto.
- Salve! - disse a bassa voce Gianuario. -
- Oh! Buongiorno! Chi siete? E da dove venite? -
- Siamo viandanti e veniamo da molto lontano, da sud - replicò
Gianuario, segnando con il braccio la loro provenienza.
- Fateci compagnia! - aggiunse uno dei pescatori.
- Ma come facciamo? - replicò l’altro - abbiamo solo pane
raffermo e quattro pesci! -
- E’ più che sufficiente! - azzardò Proto timidamente. Siamo
abituati ai lunghi digiuni. Grazie per la vostra amicizia e
disponibilità! -
Ora, i quattro stavano uno di fronte all’altro e sembrava si
conoscessero da chissà quanto. Parlavano del mare, dei suoi frutti,
delle sue tempeste.
- Vedete quella grande isola, là lontana? - prese a dire Ponziano -
Quella é l’Asinara, dove é molto difficile, se non impossibile,
arrivare, per via delle sue coste, molto frastagliate, con rocce
semisommerse, che nessuno conosce e dove tante navi vanno a
sfracellarsi, anche col mare calmo. In città, abbiamo sentito che
Barbaro vi ha fatto confinare per sempre due sacerdoti cristiani,
colpevoli di essersi dichiarati seguaci di Gesù Cristo! -
- Chi é questo Barbaro? - domandò all’improvviso Gianuario.
- E’ da tempo il Governatore della Sardegna e della Corsica.
Rappresenta l’Imperatore Diocleziano e quello che dice lui diventa
legge. Abita a Turris, nel palazzo delle terme, vicino al ponte. E’
protetto dai suoi soldati; é uomo, dicono, cattivo, che combatte e
odia, in particolare, chi appartiene alla religione cristiana. In città ci
sono molti cristiani, ma vivono tutti in periferia o nelle campagne,
per paura di essere scoperti. -
- E voi chi siete? - incalzò l’Africano.
- Siamo fratelli e viviamo come possiamo. I nostri genitori sono
morti, anzi, no, sono stati ammazzati!
- Come? Ammazzati!? -
- Sì e non ci hanno detto niente! Una mattina di questa
primavera, hanno portato i loro corpi, straziati, a casa. Erano stati
frustati a sangue, portavano i segni della violenza dappertutto, e mio
padre aveva il cranio diviso a metà. Ora noi abbiamo soltanto questa
piccola barca; a volte riusciamo a fare una buona pescata e, allora, in
paese vendiamo il frutto della nostra giornata, e così é e sarà! -
Gianuario non interruppe quel breve racconto, perché capiva
quanto dolore si era accumulato nell’animo di quei due fratelli e capì
anche che erano cristiani e tali sarebbero rimasti.
Proto ringraziò ancora e si drizzò per andar via.
- Dove andate adesso? - domandarono.
- Verso la città, per conoscere e trovare nuovi amici, come voi! -
rispose Gianuario.
- Voi venite con noi, nella nostra casa, che é dalle parti della
miniera! Se vi vedono vestiti in quella maniera, i soldati penseranno
subito che siete mendicanti, che non lavorate, che non meritate di
vivere, come i cristiani! Ma voi - e finì - siete cristiani? -
- Sì! Dal profondo del nostro cuore! - annuirono e si
incamminarono.
Un alone di felicità intensa e intima avvolse i quattro e un sorriso
di gioia provò ad apparire sui loro volti scuri.
Gianuario ringraziò a modo suo la Provvidenza, toccò la sua
croce nascosta, che gli diede nuova energia e speranza.
Giunsero, passando per la periferia, alla casa di Ponziano e
Gregorio, che aveva, di fronte, un orticello con alberi da frutto.
Era molto modesta quella casa, ma vi erano tanti spazi da poter
accogliere quattro persone. C’erano evidenti i segni della loro
religione e due tavolette di legno, oblunghe, con sù incisi i nomi dei
genitori estinti.
Gianuario e Proto si accorsero di vivere in un altra dimensione
umana, pur riflettendo seriamente che erano andati a finire nel paese
dove regnava quel signore già da loro conosciuto, e come!
Non sapendo andar per mare, il giorno successivo, di buona lena,
armati di vanga e zappa, incominciarono a smuovere la dura terra di
quell’orto. Coi due fratelli si erano divise le incombenze; chi
lavorava da una parte, chi dall’altra.
Li pervase una tale tranquillità d’animo che fece loro pensare ad
una benedizione divina.
Pregavano in assoluta libertà e talvolta erano anche in quattro.
* * *
Gavino passò alcuni giorni seguendo Ducio e tutti quelli come lui,
che lavoravano alla miniera di ferro. Conobbe molti suoi compagni e
toccò, con mano, quanto duro ed ingrato fosse quel lavoro.
Coloro che li controllavano non erano soldati, ma strani
personaggi, davvero sconosciuti, proprio come aveva detto Ducio
stesso.
Non si sapeva da dove arrivassero e da chi fossero comandati.
Erano violenti e se appena qualcuno osava fermarsi, veniva
scudisciato e costretto a subire nuove angherie. Si rivoltarono anche
a Gavino, allorquando questi intervenne per togliere dalle loro
grinfie due incauti operai che, forse, perdevano troppo tempo in
chiacchere.
Li fermò soltanto la spada minacciosa e protesa verso il petto.
Quella miniera, tuttavia, non era una fucina di violenze; era piuttosto
un concentramento di braccia umane, atte a rubare, dalle viscere
della terra, quel prezioso minerale che, comunque, sarebbe servito
alla crescita della stessa Roma e dei popoli da essa conquistati.
Gavino, queste considerazioni le faceva, ma non approvava la
maniera con cui quel lavoro doveva dare così tanti frutti.
Non voleva la violenza, non voleva la sopraffazione; il debole non
doveva soccombere di fronte al forte. Lui amava il rispetto,
l’uguaglianza e molto altro che si teneva dentro, ma solo per il fatto
che era un soldato romano. Non poteva rinnegare il suo mandato,
non poteva spogliarsi di quella divisa. Eppoi, a chi l’avrebbe
esternato? E cosa avrebbe fatto? Era lontano dai suoi genitori, dei
quali, oltretutto, non aveva più avuto notizie.
Alla sera, dopo, era uso rifugiarsi in casa, ma da solo era raro che
vi rimanesse. I vicini lo rispettavano e lo salutavano, avendo lui, nel
tempo, dato le stesse dimostrazioni, di stima e amicizia.
Gli unici che, quotidianamente, frequentava erano Ducio e la sua
famiglia. Trascorreva perfino momenti di allegria, dovuti alla
presenza di Silvia e Simplicio, giovani più di lui, e perciò portati al
dialogo, agli scherzi, al disincanto, in contrasto con gli adulti e con
tutto quello che ogni giorno accadeva.
In una di quelle serate invernali, Ducio arrivò a casa, trovandovi
Gavino con i suoi familiari, che parlavano di amici e di giochi, ma
anche di speranze in un avvenire migliore.
- E’ accaduto qualcosa di nuovo? - domandò Gavino.
- E’ tutto vecchio! - ammise sconsolato Ducio.
- Come vecchio? -
- Gli é che quello che succedeva prima, succede ancora e di
peggio! -
- Cosa vuoi dire? - incalzò Gavino.
- Voglio dire che ora le persecuzioni, anche personali, sono un
dato di fatto; sono diventati atti ufficiali e pubblici e pare la
popolazione voglia ribellarsi. -
- E tu come fai a sapere queste cose? -
- Eh! purtroppo le ho viste ed anch’io ho rischiato. Le guardie del
governatore fanno delle vere e proprie spedizioni punitive, sembra
che vi siano indirizzati, perché dopo avviene l’indicibile, in
particolare di notte e per la notte intera..Infatti non riuscivo a
spiegarrni come mai, di buon mattino, se non all’alba, mi imbattessi
spesso in gruppi di fuggiaschi, che correvano verso la campagna,
sotto i boschi, senz’altro per nascondersi e non farsi prendere.
Qualcuno si mischiava a noi, verso la miniera, facendo finta di
andare al lavoro! -
- Ma questo, quando? - l’interruppe Gavino.
- Ma anche stamane, allorquando vennero presi e messi subito in
catene, due sconosciuti che si dichiaravano inviati di non so quale
signore!
- Signore?! E perché mai? -
- Non sò, non ho capito quello che dicevano, in mezzo ad una
baraonda improvvisa e chiassosa! -
- E dove li han trascinati? -
- Secondo me, li han portati al sicuro, in qualche grotta, vicino al
Palazzo, per essere processati! -
Gavino si ritirò a casa sua, con forti dubbi ed inquietitudini.
Il giorno dopo non riuscì a farsi ricevere da Barbaro, a causa della
sua salute. Girò in lungo e in largo e non vide altri soldati o guardie
in atteggiamenti repressivi o violenti. Seppe, sì, da persone
conosciute, dell’arrivo in città, di due viandanti, assai tranquilli, e ciò
lo fece riandare col pensiero a Ducio.
Ritornò a Palazzo e incontrò Giulio con Gallena.
I due sorrisero, quasi a sfiorarsi.
- Cosa ti porta qui, Gavino? - gli si rivolse Giulio. - Vuoi sapere
degli ultimi avvenimenti? -
- Si! ma mi auguro che non ce ne siano! -
- Invece ci sono e come! Domani, prima dell’ora del vespro,
saranno processati due viandanti. Barbaro è felice di questo processo,
perché, dopo, ci dovrà comunicare ulteriori grandi notizie! -
- Ma chi sono questi viandanti? -
- Lo sapremo domani! -
- Ci devi essere anche tu, é molto importante! -
* * *
Il grande salone del Palazzo aveva il solito aspetto, di opulenza, di
grandiosità e anche di solennità, se non vi accadessero tutte quelle
iniquità e ignominie, pensava Gavino.
Faceva abbastanza freddo, per cui tutti gli invitati al processo,
erano già all’interno, al riparo e al caldo che le torce brucianti
emanavano. Gavino entrò per ultimo e occupò un angolo molto
lontano dal proscenio, dove immaginava si stesse per svolgere la già
conosciuta adunanza. V’erano molte guardie e soldati armati, altri
sconosciuti e tanta gente del popolo, che voleva assistere e sentire.
Alcuni centurioni, sfavillanti a orgogliosi nella loro divisa forti e
pronti a circondare e difendere il loro piccolo imperatore.
Pareva di dover assistere ad una bella rappresentazione teatrale, e
lui, in cuor suo, se lo augurava. Un brusio si spandeva, in quell’
attesa piena di curiosità e paura. Non era apparso il lungo tavolo con
i famosi aculei incurvati e questo, a Gavino, fece pensare a qualcosa
di meno crudele, senza violenza.
Finalmente apparve Barbaro, bello intunicato, ma poco austero,
come sempre. S’assise allo stesso modo e, con aria triste ma decisa, si
rivolse quasi alla platea:
- Dove sono? - chiese gracchiante.
I presenti si voltarono, chi da una parte, chi dall’altra, alla ricerca
degli innominati, quasi lo sapessero o li conoscessero.
Con quella domanda maligna, il governatore aveva ottenuto
l’effetto voluto. Creare il dubbio subdolo e farlo annidare, fino a che
uno non si fidava dell’altro, anche se vicino e conosciuto.
- Non sono in mezzo a voi, amici miei! - riprese Barbaro, pacato.
E gli dei mai non vogliano che gente come questa s’annidi fra di voi
e le vostre famiglie. Sono soltanto due e ringrazio le mie guardie, che
li hanno trovati! Sono quanto di peggio questa società possa
esprimere; sono due delinquenti, due imbroglioni, due ladri, due
persone non degne della nostra civiltà, sono due cristiani, che io
conosco molto bene, e ai quali voglio dare una lezione severa davanti
al popolo! -
Quel brusio disinteressato di prima, diventò indefinito; si
sentivano dei sibili, delle frasi smozzate, di stupore frammisto a
timore.
Qualcuno fece cenno di andar via, ma ne fu impedito, Un cordone
umano, fatto di presenze poco umane, circondava il perimetro di
quella sala e Gavino capì che vi erano costretti.
Chi era entrato, non poteva uscire, se non alla fine di quel
processo.
- Sapete chi sono e qual’é la loro colpa? Sono due sacerdoti
cristiani, si chiamano Gianuario e Proto, e mi hanno tradito! Ma non
solo; hanno violato le leggi e sono sfuggiti alla mia condanna, non
qui, a Turris, bensì in Corsica, durante la mia recente permanenza.
Erano arrivati colà, forse dall’ Africa, ed io li avevo accolti a braccia
aperte.
Li avevo nominati miei ambasciatori, in quel territorio, proprio
perché, soprattutto Gianuario, mi era sembrato uomo di grande
cultura, di grande comunicazione, in mezzo alla plebe ignorante.
Ho dato loro l’intera fiducia, che hanno calpestato e offeso.
In quell’isola abbiamo scoperto sotto quali sembianze tenevano
l’intelligenza, la bonomia, la sottomissione stessa nei nostri confronti.
Agivano in piena falsità e malafede, andando a pregare e convincere
quei pochi pastori corsicani a credere in quella religione di quel
Gesù, che tante menti sane sta distruggendo! Ho dato loro tutte le
possibilità per redimersi; ho offerto loro dignità e ricchezza, ma mi
hanno negato tutto! Dopo averli arrestati e frustati, li ho fatti
imbarcare su una nave di mercenari, perché li trasportasse e li
lasciasse in esilio perenne all’ Asinara, che voi conoscete! Secondo il
nostro pensiero, in quell’isola solitaria, non vive né sopravvive
alcuno, abitata com’é da animali feroci e sconosciuti! Invece, eccoli
qua! Sono riusciti ad abbandonare quella nave, approdando nelle
sabbie di Turris! E questa é anche la loro confessione! -
- Ma dove sono? - ribatté Barbaro ormai accaldato e vicino allo
sproloquio.
- Siamo qui! E ordina ai tuoi soldati di togliere dai nostri corpi
queste catene. Non servono! non dobbiamo e non vogliamo fuggire!
Anzi, ringraziamo il nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha portato al
tuo cospetto! Noi abbiamo tradito la tua legge pagana e dobbiamo
essere processati, davanti a te, davanti al popolo, di cui anche noi
facciamo parte! - Era l’esordio di Gianuario, fiero nella sua ricchezza,
nella sua povertà.
Gavino, profondamente stupito e attento, si era avvicinato di
molto a quella scena madre e ne scrutava ogni movimento,
memorizzando ogni parola.
Barbaro, ricco della sua ignoranza, sperduto mentalmente,
implorante qualche sua divinità, per abbreviare quello che lui stesso
aveva voluto e che pareva non finire, invitò Gianuario e Proto a
presentarsi più visibili a quella platea, in modo che gli astanti
vedessero meglio i loro volti, imbruttiti ed emaciati.
- Barbaro! - riprese a dire pacatamente Gianuario - tu che vuoi
comandare questa gente, con le leggi di Roma, del tuo Imperatore; tu
che, con la forza, vuoi sottomettere questi uomini, tu che vuoi
imporre la tua religione pagana, che adora tutti e nessuno, che crede
a mille divinità, che ti soggiogano e ti rendono simile ad un fuscello
d’erba sbattuto dal vento, tu, Barbaro, non riuscirai mai a
impadronirti dei nostri cuori! Essi appartengono, da sempre, al
nostro Dio, che ci ha dato la forza di essere vivi, forti davanti a te, e
da te attendiamo la condanna. Sappi che noi abbiamo dedicato la
nostra vita a soccorrere i deboli, a perdonare gli assassini, ad amare il
prossimo, a pregare perché il nostro Gesù ci accolga tutti nel suo
grembo, indifferentemente, dal ricco al povero! Sappi che noi
perdoneremo anche te, per quello che comunque attuerai nei nostri
confronti, ovvero la morte, che noi aspettiamo! Sappiamo di morire
con l’animo sereno, degni di Colui che ci ha illuminato, nel nostro
peregrinare dall’ Africa alla Corsica, fino alla tua Turris. Ora
pregheremo anche per te e tu, dopo, ci ammazzerai! Lode e grazia a
Gesù, nostro protettore! -
La difesa di Gianuario (ma non voleva difendersi) fu come un
fendente di spada, inflitto in un corpo che non ha sangue.
Quella piccola folla zittì se stessa, in un respiro trattenuto, per
paura o ammirazione non si sà.
Non si mosse alcuno, ma Barbaro non si intenerì e aggredì quei
due con le braccia alzate, in segno di minaccia.
- Non siete degni di calpestare questa terra, invece, ecco cosa vi
dico! imbroglioni, delinquenti, privi di qualsiasi forma che vi possa
far rassomigliare a noi uomini! Sarete spazzati via come vermi, sarete
polvere che nessuno vedrà, e la terra si salverà dalle vostre orme!
Soldati! portate via questi due cialtroni, incatenateli al collo e ai piedi
e lasciateli in quella grotta chiusa, in attesa della condanna! -
- Gavino! Dov’é il nostro tribuno Gavino? - urlò ancora.
Trasalì, Gavino, sentendo il suo nome, alto, in quel baluginio di
voci e di luci. Si accostò e ascoltò quel che il capo voleva dirgli:
- Gavino, conoscendo la tua rettitudine e la tua fedeltà, ti affido i
due prigionieri. Tu ne sarai il custode fino a quando non sarà deciso
il giorno del loro sacrificio. Sii forte, perché questa é la volta della tua
stella! Fatti onore e Roma sara orgogliosa di te! Va! e ave fratello! -
Il processo era finito e molti avevano guadagnato l’uscita.
Gavino si sentì sgretolare dentro; fumi di calore investirono il suo
cervello e, a momenti, credeva di precipitare in quell’abisso infinito
di sentimenti confusi, da cui gli sembrava impossibile risalire.
Con coraggio, rifiutò di pensare. Aveva ricevuto un ordine, molto
pesante, e lui vi si doveva attenere, ad ogni costo.
* * *
I due condannati furono portati via, incatenati, da ben dieci
energumeni, non soldati o guardie.
Il percorso non fu breve, fino ad oltre Balai, dove il mare e il
vento avevano scavato profonde caverne, che si prestavano, in
natura, alla bisogna.
Li rinchiusero negli antri più interni e neppure la luce del giorno
riusciva a raggiungerli. Li abbandonarono al loro destino, mentre
quelli si alternavano, in gruppi di cinque, di giorno e di notte, nella
vigilanza stretta.
Gianuario e Proto, accucciati sulle ginocchia, ebbero la forza di
dire grazie agli ”accompagnatori”, che sembravano ammansiti dallo
sguardo e dalla rassegnazione di quei due.
Non fecero altro che distendersi sopra la nuda terra e pregare.
Furono rapiti dal sonno ristoratore.
All’ alba, arrivò Gavino, che fu fermato dai cinque guardiani.
- E tu chi sei? Cosa vuoi? - intimarono.
- Io sono Gavino, tribuno romano, inviato da Barbaro! Devo
occuparmi dei prigionieri! Dove sono?
- Vai fino in fondo, sono là, anche se non li vedrai. -
- Grazie! - e li raggiunse in una completa oscurità.
- Gianuario, Proto, dove siete?
- Siamo qui, forse non ci vedi, ma sentirari la nostra voce. - E tu
chi sei?
- Sono Gavino! - e si fermò, sforzandosi di vedere qualcuno. Si
spostò sulla sua sinistra, toccò la parete calcarea ed umida, ed un
fascio tenue, inaspettato, di luce giallastra, proiettò le due figure.
D’istinto, Gavino sollevò il capo e notò, lontano da loro, l’origine
di quella sorgente luminosa; impercettibile, ma a quell’ora il sole
riusciva a trapassare alcune striature profonde della terra, mandando
piccoli bagliori, che facevano pensare perfino al miracolo.
Gianuario ci credette.
- Ora ti vedo, ma perché sei venuto? –
- È Barbaro che lo vuole, perché devo accertarmi che siate in vita,
fino a che lui non emanerà la sua sentenza.
- La nostra condanna è già stata pronunciata! Aspettiamo di
morire sereni, in pace con Gesù Cristo, che ci darà respiro e forza,
fino al momento supremo. Noi preghiamo anche per te, che sei
soldato romano, ambasciatore fedele del tuo padrone. -
- Io non ho padrone, non sono un cane! E non sono nemmeno
ambasciatore. Sono un uomo come voi e vorrei sentire la vostra
storia! -
- Come?!, vuoi conoscere la nostra storia? - si meravigliò, e non
poco, Gianuario - Tu sai, tu hai sentito il processo, la sicuméra del
tuo re, le sue intenzioni, la sua infamia. Tu non puoi, soldato
romano, voler sapere delle nostre peregrinazioni, delle nostre
sofferenze, del nostro credo nella verità cristiana che portiamo nei
nostri cuori. Abbiamo rinunciato a tutti i doni del vivere terreno, per
dedicarci alla predicazione del verbo del nostro Gesù. Siamo stati
ostacolati e perseguitati, quasi sempre, dai potenti, dai pagani, dagli
atei, ora da questo imperatore di Roma, che vuole la distruzione e la
eliminazione fisica di tutti i cristiani. Ma il popolo, la gente umile,
pacifica e laboriosa, crede e ascolta, anche di nascosto, la nostra
parola, che é parola di Gesù. Tu, Gavino, non crederai, ma la pace
interiore, la serenità, la felicità, si raggiungono con la preghiera in
Cristo; perché Lui ci libererà da questi oppressori, dalle persecuzioni,
che sono in atto da tanti anni, dall’ odio che pervade gli uni e li
contrappone, con la forza, agli altri. -
- Ma tu, anche tu, nutri questi sentimenti barbari nei nostri
confronti? - chiese all’improvviso Gianuario.
Gavino tacque, prese del tempo ed eludendo quella domanda
terribile, domandò distrattamente:
- Desidero sentire tutta la vostra storia!
Vi ascolto, perché nessun altro ci può ascoltare. -
I tre si vedevano a mala pena, in quella penombra passeggera, ma
quel colloquio lo desideravano; i due come medicina, per la loro
attesa, l’altro per conoscenza, per accrescimento del suo bagaglio
umano e giovanile.
Ma era proprio così?
Gavino, a differenza di altre volte, sentiva intorno un alone di
libertà interiore; nessun cittadino di Turris lo seguiva o lo ascoltava.
Quel silenzio, voluto e creato dalla natura, lo incoraggiava e gli dava
forza necessaria per liberare alcuni propositi, per provare a vincere,
forse, quella battaglia intima che scoppiava in lui, quando era di
fronte all’ingiustizia, alla sopraffazione, e non voleva. Se ne rendeva
conto e non si biasimava, tant’é che aveva invitato quei due a
continuare.
Gianuario, perciò, non si fece pregare, nonostante quel soldato
non avesse ancora risposto a quella sua precisa domanda. Si alzò e
camminò verso quella luce fioca, quasi cercasse una via d’uscita.
Prese a parlare serenamente, Proto era attento e triste.
Gavino non osava interromperlo, ma lo fece quando raccontò di
Barbaro in Corsica.
- Perché lo chiamavano Re Barbaro? -
- Forse, quel titolo, se l’era dato lui, forse i suoi capitani, visto che
in quell’isola erano in pochi e v’erano pochissimi abitanti! -
- Qui, a Turris, nessuno lo chiama re ! - disse Gavino. - Lui é
governatore, presiede alle due isole e fa semplicemente eseguire gli
ordini scritti dall’Imperatore Diocleziano. E li fà eseguire anche
troppo bene! Anch’io, purtroppo, ne ho visti tanti di processi e
condanne.
- Vi dico: Non voglio vedere la vostra! Non voglio esserne
testimone, perché ho assistito a troppe ingiustizie in questa terra, pur
bella e accogliente! -
- Ma allora tu stai ascoltando quello che noi andiamo dicendo?
Ma allora tu vuoi salvare le nostre anime, se non i corpi?! -
La voce di Gianuario era diventata incisiva e decisa; non chiedeva
salvezza, voleva solo comunicare il suo stato d’animo, che era uguale
a quello di prima, di sempre. Con quella domanda, semmai, era sua
volontà coinvolgere, ancora segretamente, un altro individuo, non
importava se ateo o cristiano. Gavino, questo lo capì e ancora, dentro
se stesso, vide un’altra luce, ben diversa da quella che il sole riusciva
a far penetrare in quegli angoli angusti.
Capì, ma fu anche capito. La parola, in quel momento, non
serviva; c’era lo spirito che li accumunava, ma non se ne
avvedevano.
I due condannati aspettavano la morte; Gavino, inconsciamente, li
proteggeva, con l’umano desiderio di non far male, seppure
indossava quella divisa.
- Ma perché non vuoi vedere la nostra condanna? - riprese
Gianuario.
Dopo un po’ di tempo, Gavino riuscì a rispondere:
- Non voglio, e mai lo farò! Per i miei principi, per il rispetto che
ho degli altri, perché vengo ripagato da tutti. Io, seppur soldato di
Roma, non ho mai fatto del male ad alcuno, non ho usato la mia
spada per offendere, ferire o ammazzare. Non ho usato arroganza e
odio, in occasione, sebbene mi si imponesse di farlo. Ho gli occhi ma
non vedo, ho l’udito, ma non sento di tutto quello che è accaduto
intorno a me. Gli uomini, per vivere hanno bisogno di leggi, di
regole comuni, per essere tutti eguali. Ci sono periodi, come questo,
in cui le leggi sono emanazione di editti, di imposizioni, dettate dalla
mente di un uomo solo, potente e prepotente, in assoluto disprezzo,
non tanto dell’uomo stesso, quanto della vita umana. E’ questa che
per me e importante, pur in quelle regole di civiltà. Quella vita,
quello spazio di tempo, breve o lungo, deve essere di tutti, chiunque
esso sia, ricco o povero, e và vissuta. Non deve essere calpestata e
annullata; al contrario, esaltata nei suoi valori, nella collettività,
perché nessuno si senta sottomesso o inferiore ad altro. Questo
insegnamento me l’ han dato i miei genitori e ne vado fiero.
Io, sappiate, non vi torcerò un dito. Vi aiuterò e ascolterò ancora
questo vostro testamento, perché per me é e sarà parola di uomini
che han sofferto e lottato per un ideale. Vi ammiro per la forza che
avete e che mi state donando! Ed ora, pregate pure, se volete! Io
torno in città e attenderò ordini, se mi arriveranno! A presto! -
Gianuario e Proto videro quell’ ombra che si allontanava.
Il sole, ormai, aveva oltrepassato quella striscia di terra ricurva.
Il buio li aveva nuovamente avvolti, ma non se ne lamentavano.
Aspettavano e pregavano.
* * *
In città si faceva grande cronaca del processo e della dura condanna
inflitta. Sempre a bassa voce e non pubblicamente, Gavino ascoltò,
anche involontariamente, molti commenti su quell’episodio. Erano
negativi, visto che malumori già serpeggiavano tra la gente, e per le
improvvise perquisizioni e per gli arresti e per la violenza che veniva
usata.
Si trovò al centro di questa discussione, anche da Ducio, a casa, e
a lui piacque parlarne.
Ducio ricordava i due condannati solo di vista, mentre Gavino li
aveva ormai conosciuti e bene.
- Per ordine di Barbaro, sarò custode di quei due fino alla
decisione della condanna a morte - disse Gavino - Dovrò sorvegliare
che sopravvivano ed essere testimone di un altra tragedia! -
- Non ti invidio, caro Gavino! Io andrò sempre alla miniera e non
vorrò ascoltare di nulla, di questi fatti, perché io ho già sofferto; non
voglio che la mia famiglia partecipi a questi eventi, neppure e
soltanto a sentirli nominare. Certo, se ne parlerà, saranno loro stessi,
gli assassini, a darne notizia, poiché di questo vanno orgogliosi! La
legge di Roma impone e dispone, attorno si crea la storia, la civiltà o
l’inciviltà, mentre il popolo subisce e non può esprimere il suo
pensiero. Ora incomincio a capirti, Gavino, anche se, in molteplici
occasioni, mi avevi dimostrato qual’era l’essenza vera della tua vita.
Sono onorato e felice della tua amicizia! Non oso darti consigli,
perché sei saggio; non oso accompagnarti, perché vedo che sei in
buona compagnia. Hai te, la tua forza, la tua intelligenza e, forse, sai
anche chi, tutto questo, te lo stà dando. Vah! so che farai il tuo
dovere e non avrai a pentirti!
Gavino non s’aspettava, sinceramente, questa specie di sfogo da
parte di Ducio. Ne rimase quasi affascinato, sapendo quanto dura e
faticosa fosse l’esistenza di quella famiglia.
Strinse la mano a quel suo amico, a suggellare quel che avea
udito, di parole e di pensieri sempre condivisi, ma mai apertamente
ricambiati.
Si salutarono e si lasciarono.
L’imprigionamento crudele dei due cristiani, la feroce
determinazione di Barbaro, nel disporre quella condanna, l’assenso e
la fedeltà di quei soldati e comandanti, aveva prodotto in Gavino
una profonda e finora sconosciuta repulsione dei propri
intendimenti.
Repulsione, pensava, anche verso se stesso, in quanto uomo,
essere umano, così come lui, Gavino, aveva sempre creduto. E andò
a ritroso nel tempo e incominciò a giudicare il suo passato.
Aveva visto di tutto, degli avvenimenti più duri, le crudeltà, le
ingiustizie, le persecuzioni e, soprattutto, la mancanza di rispetto
della vita, dono supremo. E lui continuava a chiedersi: cosa aveva
fatto?
- Nulla! o quasi nulla! - fu la risposta.
Ne rimase meravigliato e sorpreso, in senso negativo, però.
Promise, in quello stato d’animo, di ergere una diga intorno a se,
alta, impenetrabile, forte si dà poter respingere ogni azione contraria
a quei principi che lui tanto amava e che, fino ad adesso, non era
riuscito a mettere in pratica, al momento del bisogno.
Vagò, con la mente stanca, in quel vasto territorio di Turris e
rivide l’evoluzione di vita di quei contadini, di quei pastori, di quei
pescatori.
Li rivide come fratelli, facenti parte di una stessa famiglia grande
e lui vi si mischiò, rispettoso e umile. Sembrava contento di quella
virtualità e, quasi quasi, andava assolvendosi per tutto quello che
non aveva fatto, ma che avrebbe voluto.
La sua volontà, che non poteva essere sua, era guidata; riceveva
ordini da altri, era soggiogata, perché aveva scelto quella via, perché
era un soldato di Roma e da questa dipendeva.
Il contrario non poteva avvenire, perché lui era un militare e, in
quanto tale, aveva giurato fedeltà alla sua Patria.
Il tradimento, in origine, non faceva parte dei suoi sentimenti,
tanto meno, la fuga e l’abbandono di quella divisa. Divisa che
copriva, ora, un corpo pieno, stracolmo di contraddizioni, maturate
piano piano, nel dovere, nell’umanità e nella sofferenza, propria e
altrui.
Questo esame, Gavino, lo stava affrontando, ma gli argomenti
erano ancora poco chiari. Aveva di fronte a sé un campo sterminato,
dove una battaglia era pronta ad esplodere. Lui, però, non aveva
ancora scelto l’arma con cui combattere e se ne rammaricava.
Ma doveva combattere, lo sapeva, e ogni giorno che passava, la
sua voce, quella di dentro, glielo chiedeva e lo spronava.
Ecco, era in questi momenti, che sentiva la mancanza dei suoi
genitori! Forse di più, perché il suolo, la terra, le strade di Roma, la
sua città, gli mancavano e rendevano inutile ogni suo pensamento. Si
lasciava prendere da queste emozioni forti, da questi travagli, che
lasciavano maturare in lui più generosità, una più fulgida
intelligenza, che finivano per renderlo più propenso a percorrere
quel cammino accidentato seppur segnato. Ma lui non lo sapeva, per
tutti quei motivi sopradescritti.
Non aveva raggiunto quella cima, pur avendone percorso i mille
sentieri. Doveva accadere un miracolo, tanti miracoli, di cui lui non
sapeva proprio niente, anche se quella strada stava percorrendo.
* * *
Il tempo passava e la data della sentenza di morte, per Gianuario e
Proto, si avvicinava.
Gavino, ogni giorno, si recava in quella grotta e lo faceva
volentieri, perché parlava, ovvero, colloquiava con quei due,
ascoltandone la storia negli intimi significati, scoprendo nuove
sensazioni umane, a cui lui prestava attenzione e memoria.
Non era più andato a Palazzo e di quel che accadeva veniva
informato alla sera, dai figli di Ducio, che, ormai, l’avevano adottato.
Non poteva, di certo, avere il brio e lo spirito dei due ragazzi; ma,
a fine giornata, parlare di tanti altri problemi, era, per lui, un
toccasana, una medicina leggera, per lenire non tanto i dolori fisici,
che non c’erano, quanto quelli morali e del pensiero.
Perciò Gavino credeva in quegli incontri, in quelle conversazioni,
più o meno importanti, che coinvolgevano tutta la famiglia. I giovani
si arrichivano di esperienza, di giudizi, che, altrimenti, non
sarebbero emersi. Si riteneva fortunato per avere fatto conoscenza e
amicizia con Ducio e i suoi.
Quella mattina di fine settembre, in un’alba umida e uggiosa,
Gavino ricevette un messaggero di Barbaro, che lo invitava a recarsi
da lui.
Dopo la visita ai due prigionieri, si recò a Palazzo e conferì subito
col governatore:
- Salve! Gavino, i due colpevoli come stanno? -
- Stanno bene, Barbaro! Quei due hanno un coraggio da leoni!
Certo, non stanno bene! Però attendono la tua condanna come una
liberazione. Non desiderano altro! -
- Questi cristiani non li capisco proprio! - disse Barbaro -
Vogliono vivere, vogliono combattere, ma al primo fosso che si apre
sotto i loro piedi, cedono e non si rialzano più! Ma che razza di
uomini sono questi? -
- Sono uomini che non usano armi, perché il loro scopo
principale é la vita. Usano la parola per conquistare la gente, pur
sapendo che sono osteggiati e poco creduti! - provò a dire Gavino.
Barbaro lo stava osservando di sottecchi, ma continuò.
- Tante persone, in mezzo a noi, scelgono un genere di vita. Loro
hanno scelto quella, sbagliata secondo la legge, ed ora ne stanno
pagando le conseguenze. -
- Bene, bene, Gavino! Mi sembra che sia giunto il momento di
celebrare questo processo. La sua risonanza contribuirà a distogliere
quei cittadini che vogliono credere ancora in questo Cristo e li
aiuterà ad avvicinarsi con maggior fiducia alle istituzioni di Roma.
L’ultimo giorno di questo mese, alla mezza, condurrete i due davanti
al nostro tribunale. Saranno immediatamente condannati e così si
concluderà il loro destino, Ave Gavino! Arrivederci! -
- Arrivederci!
Gavino non voleva quell’arrivederci; voleva, invece, non essere
presente, assente per sempre; desiderava, in quell’istante, essere una
nuvola, anche gonfia di pioggia, tanto, dopo, ci avrebbe pensato il
vento.
Le persone che lo circondavano, i palazzi, gli animali, la stessa
natura, non avevano, ormai, alcun senso. Tutto, dinanzi a lui, si stava
appiattendo; ogni cosa in movimento o statica, stava divenendo
uguale, insignificante e scorreva come in un lungo e largo fiume, di
acque melmose, pesanti e quiete. Il sole, anch’esso nascosto, non
l’aiutava, anzi, quella luce, resa opaca, gli dava fastidio e lo
rattristava ancor più.
Si ritrovò, quasi passeggiando, vicino a casa. Fece conoscenza coi
due fratelli pescatori, che avevano ospitato Gianuario e Proto.
Raccontò di loro l’ultima disgrazia e ne rimasero veramente
sconvolti.
Gli promisero di voler partecipare al grande processo.
Alla fine, stanco nella mente, mortificata e sollecitata oltre modo,
accettò l’ordine del suo corpo, esausto, che gli chiedeva:
- Gavino, stenditi sul tuo giaciglio, chiudi gli occhi e abbandona,
per questa notte, i tuoi pensieri! -
Ubbidì, in un silenzio che pareva comandato.
* * *
Non riposò Gavino, meditò per la notte intera, parlò a se stesso del
bene e del male; il suo cuore pulsò forte per ore e ore, per
domandarsi, per interrogarsi, per frugare nel suo corpo e nella sua
mente, per trovare il Gavino-uomo, coraggio e sfida, il Gavino
pronto, innanzitutto, a credere ed agire secondo coscienza, maturità
e fedeltà.
E venne l’alba successiva a trovarlo ancora immerso in questi
pensamenti profondi, che lui non disdegnava, ma che si facevano
sempre più pressanti, per essere accettati tali quali parevano.
Passarono molti giorni e l’impegno della mente diveniva ancor
più gravoso, ma accettabile. Non era il ricatto del suo io, ma questo,
comunque, stava prendendo la forma di una nuova lezione di vita
terrena, impartita, non da dotti maestri, ma bensì da lui stesso, da
eventi vissuti, da testimonianze, da parole udite e registrate, mai
dimenticate.
Ora sembrava che lui potesse rinnegare tutto il suo passato, anche
se, alla luce del sole, non poteva. Ma quando si trovava di fronte ai
due condannati, ogni giorno, in quella grotta, si trasformava;
diventava più libero nei movimenti, nella parola; scherzava
bonariamente e, in tre, addiritura, sorridevano di quell’evento ormai
segnato e al quale erano legati.
Gianuario e Proto seppero della data della loro condanna e l’
accettarono di buon grado, quasi fosse un regalo.
Non avevano pentimenti, né intenzioni di vendetta. Avevano
quella grande Fede che illuminava quel sentiero, dal quale non
sarebbero più ripassati.
Gavino infuse loro coraggio e di questo approffittò anche lui, che
ne aveva bisogno.
Continuò a svolgere i suoi compiti, non dando ad intendere ad
alcuno di quello che, dentro, gli era successo.
Se lo ripeté più volte, sempre dentro, che lui non era quello di
prima, di un mese fà, di tanti mesi fà. Desiderava dimostrarlo, a
pochi, a molti, ma ne aspettava l’occasione.
E l’occasione stava arrivando, lenta e violenta, e, forse, ancora,
egli non se ne rendeva conto. Pensava a quell’appuntamento
dell’ultimo giorno del mese, e vi si stava preparando come se a
essere condannato a morte fosse stato proprio lui.
Gli ultimi due giorni li trascorse a casa. Incontrò tanta gente. Tutti
lo conoscevano e ne avevano grande rispetto. Sapevano del processo
e vi avrebbero partecipato, anche se tristemente.
Gavino, invece, li incoraggiava ad esser presenti.
* * *
Quella giornata, quella del processo, era triste e per Gavino era
diventata dolorosa, se non altro, perché doveva accompagnare quei
due disgraziati, che erano divenuti, ormai, suoi grandi amici.
Di buon’ora, percorse le strade di Turris e s’accorse che molti
erano già fuori, anzi si dirigevano verso il Palazzo, arrivando fino al
Ponte Romano e tornando indietro, a mo’ di passeggiata.
Si sentiva nell’aria, di quell’avvenimento. Evidentemente il passa
parola aveva funzionato, soprattutto fra le donne, ché gli uomini non
avrebbero potuto lasciare il lavoro. Giovani, bambini ed anziani
erano lì, in giro, che aspettavano l’inizio dell’evento. Ma c’erano
molti soldati in assetto di guerra ed anche altri sconosciuti, asserviti
al Capo.
Gavino stava prendendo la sua decisione, il suo percorso. Doveva
fare un grande salto. Passare sopra una montagna, senza scalarla;
attraversare un grande fiume in piena, senza bagnarsi. Quel dirupo
che, per tanto tempo, aveva immaginato, che lui vedeva senza che
altri si accorgessero, era lì, pronto per essere superato.
* * *
Il Palazzo era circondato ormai da tantissimi popolani, che si
accalcavano all’ingresso; erano controllati a vista da parecchi soldati,
anche se tutto filava in ordine. V’erano anche molti curiosi e
denigratori di Gesù Cristo, ma questo faceva parte della libertà di
ognuno, se non era imposta. Dunque, Gavino si avvicinò al
proscenio del salone centrale, quasi in punta di piedi, dovendosi, con
fatica, farsi spazio fra gli astanti.
Barbaro già confabulava coi suoi capitani e, di spirito allegro,
sembrava avere una certa fretta nel liquidare la triste vicenda.
Fu ordinato il massimo silenzio. Tuonò la voce del governatore.
- Tribuno Gavino! Dove sei? Accompagna, qui, davanti a noi, i
due condannati Gianuario e Proto! -
- Eccomi, Barbaro, son qua e sono solo! - e mentre diceva questo
si andava spogliando della bella divisa, - i due condannati non sono
con me, ma sono io che non li ho portati! Ascoltami!
Momenti di grande tensione, di paura, di sguardi, di brusii.
- Ascoltami! Io sono quel Gavino che tu conosci, un tuo fedele
soldato. Ho ascoltato sempre i tuoi ordini, conosco le leggi di Roma,
gli Editti dell’Imperatore. Ho vissuto in mezzo a voi, ma non ne ho

mai condiviso la vita; sono stato in mezzo alla plebe, come dite, ma
non ho mai alzato la spada su uno di loro; li ho, in verità, protetti e
aiutati, nel bisogno.
Da oggi, da questo momento, Barbaro, signori di Roma, soldati,
comandanti, io sono, si, Gavino, ma soldato di Gesù Cristo e della
sua religione! Aspetta!, non colpirmi col tuo ferro insanguinato! -
rivolgendosi a Barbaro - Sò cosa farai! Sappi che Gianuario e Proto
sono sempre pronti a morire per la nostra Fede! Io sarò con loro,
perché ho potuto vedere e toccare con mano quanto empie e crudeli
siano state le vostre leggi. Voi ammazzate tanti innocenti perché
credono in un solo Dio,vergognatevi! Non stà nella natura delle
creature umane, di tutto il creato, sacrificare a dei che non esistono,
pagani, che voi, invece, adorate. E in nome di questi distruggete chi
vi si oppone, soltanto perche il suo Dio é un altro.
Vergogna! Barbaro, tu ti stai macchiando di una colpa gravissima,
della quale il mondo intero, dopo, parlerà e ti condannerà!
Ricorda che la vita é bene supremo, di tutti, e nessuno può
decidere di toglierla! Tu, però, puoi e vuoi continuare a toglierla, con
l’assenso e la volontà dei tuoi imperatori.
Perciò, e per ora, prenditi la mia vita!
- Ma cosa stai cialtrando, Gavino? - sbuffò Barbaro - Non credo a
quel che dici! Qual’é il diavolo che é entrato in te? -
- Nessun diavolo! E’ la mia coscienza di uomo, il mio cuore, il
mio spirito che ti dicono che io sono e sarò seguace di Cristo, ad onta
di quello che tu deciderai! Anch’io sono pronto a morire, per Gesù,
ma anche per te, per tutti voi, per tutto il male che si é prodotto e si
stà producendo, in nome di leggi indegne e inumane! -
- Gavino - riprese Barbaro furibondo - tu sai quale sarà la tua
condanna! Ti verrà mozzata la testa, dal collo, così come ai tuoi
compagni! Se continui, quella sarà la tua sorte! Pensaci. -
Nella sala gremita si levarono molte voci, alcune inneggianti
proprio a Gavino e a quel che avea detto.
Stranamente, ma non fu presa alcuna iniziativa di repressione.
Barbaro, nel momento, non sapeva cosa fare e allora continuò:
- Dove sono i tuoi compagni? Perché non sono qui, con te? O li
hai fatti fuggire? -

- No, non sono fuggiti. Sono dove tu avevi ordinato che fossero;
ti ho già detto che aspettano la tua condanna e pregano il Nostro
Signore Gesù Cristo perché ne siano degni. Io stesso mi unirò a loro;
assieme aspetteremo che Gesù ci accolga nel suo grembo. Tu,
Barbaro, assieme ai tuoi soldati, applica la tua legge, esegui gli ordini
dei tuoi dei maledetti! La storia ti giudicherà! Noi ci uniremo in
preghiera, fino alla morte! -
- Tu non ti muoverai da qui, Gavino, perché qui tu morirai,
decapitato! Anzi, no, questo pavimento non può essere insozzato di
tale sangue. Lo porterete lontano, oltre la rupe di Balai e lì, all’alba,
gli mozzerete il capo, mentre il mare, di sotto, porterà via i suoi resti,
in pasto ai pesci! Incatenatelo! -
Urla di disapprovazione si sentirono, in particolare, dalle donne,
che si avvicinarono a Gavino e lo compiansero, baciandolo e
abbracciandolo.
Lui ne fu felice e il suo cuore si empì di amore, amore vero.
Non si mosse, mentre la platea si vuotava e i soldati
l’incatenavano.
Anche quel suo corpo, però, si vuotava, ma di altri significati. Si
sentiva più leggero, quasi assente, nonostante avesse di fronte facce
truci e vogliose di uccidere.
Rimasero, alla fine, pochi presenti, ma molte di quelle donne,
andando via, pregavano e imploravano la benedizione di Gesù su
quell’ uomo, a voce alta, senza pudore, senza paura, senza che
alcuno le interrompesse.
Barbaro, tuttavia, appariva un pò ombroso. Nonostante avesse
subito pronunciato quella parola di condanna verso Gavino, il suo
atteggiamento non rispecchiava la realtà che stava vivendo.
Quella confessione l’aveva sorpreso e disorientato non poco; tutto
si sarebbe aspettato, ma una notizia così non sarebbe neppure
riuscito a sognarla. Si riavvicinò al condannato, con voce suadente:
- Non voglio ancora credere a quello che hai detto! Non riesco a
vederti prono, sotto la fredda lama della spada!; non puoi perdere la
tua vita, buttandola nel fosso, in nome di una persona che non
conosci, di ideali che non stanno né in cielo né in terra! Come puoi
pensare di salvarti, se vuoi vivere dalla parte sbagliata? -

- Non sono fuorilegge, Barbaro! - replicò Gavino - e non voglio
salvarmi! La legge, quella vostra, e fatta di queste regole, le quali non
rispettano mille cose. Una su tutte, la più importante, la vita
dell’uomo, che voi disprezzate e perseguite, soltanto perché
appartiene a uno che crede in Gesù! No, Barbaro, voi tutti, compreso
l’Imperatore, siete volgari assassini; imprigionate e fate morire molti
innocenti e, dopo, ne fate quasi trofei, da ostentare ai vostri
superiori, ben sapendo che ne riceverete onori e gloria! Vergogna!
ecco cosa bisogna dire! L’uomo, la razza umana non é mai caduta
così in basso! Ad ogni buon conto, io sono già incatenato e sono
pronto a morire. D’ora in avanti, non farò altro che pregare il mio
Signore, perché fatti del genere non abbiano più ad accadere. E tu,
Barbaro, poiché lo credi, fà il tuo dovere! -
Barbaro non riuscì ad aprir bocca, s’era inibito, da solo.
Due centurioni lo affiancarono, quasi a proteggerlo; gli chiesero
nuove disposizioni, visto quello che era successo.
Ne fu irritato e si prese tempo, tempo che durò un’eternità, per
quei pochi militari che, con lui, erano rimasti.
Gli sguardi erano tutti rivolti a Gavino, incatenato e spoglio di
quella divisa che aveva portato con tanto onore e dignità. Ora era lì,
per terra, abbandonata e ammucchiata, e la spada a coprirla.
Gavino era stanco, ma avrebbe voluto continuare a parlare, per
difendere e diffondere quella dottrina cristiana, che era diventata
sua, da poco; da sempre, se pensava a tutte le sue perplessità, a tutti i
suoi dubbi, incertezze, che l’avevano assalito fin dal primo giorno
che era sbarcato a Turris.
Non parlò, invece, poiché vedeva Barbaro assai impacciato,
impossibilitato a muover la lingua. Non ne era capace, é vero, e di
dimostrazioni in tal senso ne aveva date tante, che lui era un
esecutore di ordini.
Di umanità, di civile convivenza, di rispetto, di amore verso il
prossimo, non avrebbe mai potuto argomentare, perché egli si
trovava proprio nella parte opposta, la più vile, la più crudele.
Allora Gavino provò a muoversi e, con le catene al corpo, fece un
gran bacano, la cui eco risuonò per tutto il salone, sinistra.
- Toglietemi questi ferri dai polsi e dai piedi! - chiese Gavino -
Non devo scappare, né aggredire alcuno di voi! Lasciatemi seduto e
basta! -
- Guardie! - ordinò un capitano - liberatelo e rinchiudetelo nella
grotta più oscura del nostro palazzo. Domani, prima che l’alba
illumini i nostri volti, dovete portarlo oltre la rupe di Balai, di fronte
a quell’insenatura profonda, che pochi di noi conoscono. Lì avverrà
il sacrificio! Ci sarò io e tre di voi. Potete andare! -
Stava terminando quella tragedia, che tale non era per Gavino,
ma bensì per tutti quelli che vi avevano assistito, succubi e
impotenti.
Si avvicinò Gallena, aveva le lacrime agli occhi; sembrava addolorata
e sincera. Abbracciò Gavino e accarezzò il suo viso, a volergli
trasmettere qualcosa che lo stesso non riuscì ad intendere. Continuava
a piangere e si allontanava. Chissà!
* * *
Gianuario e Proto, immersi in quell’oscurità, attendevano e
pregavano, ma non pensavano, minimamente, di Gavino, il quale,
quel giorno, non era nemmeno venuto a trovarli.
La sua mancata visita non li aveva preoccupati; sapevano, ormai,
della sua integrità, della sua dirittura morale e umana.
Non sapevano, però, del fuoco che si era acceso nell’ animo del
loro amico.
Di quel fuoco sacro, sempre ardente, tenuto sotto cenere buona,
sempre intelligentemente nascosto, quasi a voler provare e riprovare
la verità, l’andata verso quella méta cristiana, senza ritorno, costata
tanti dolori, sopportati, e dei quali nessuno ebbe mai ad avvedersi.
Non desideravano altro che la fine di quella esistenza, ben spesa e
priva di macchie, di orgoglio ostentato, di odio accumulato, per tutto
quello che avevano impunemente subito.
Credevano, già, in un’altra vita, dove si dà senza avere, dove si
dona senza aspettarne ricompensa, dove si prega, non per se stessi,
ma soprattutto, per gli altri, per i poveri, per gli abbandonati, per
tutti quelli che subiscono ingiustizie e non sanno come difendersi.
* * *
E venne l’alba anche di quel giorno di ottobre, carica di nubi
gravide, di pioggia, di tuoni e lampi, segni premonitori.
Il comandante, coi suoi tre aguzzini, era di fronte all’imbocatura
di quella lunga spelonca, dove erano i due condannati.
Parlarono coi cinque energumeni di guardia e lì chiamarono.
Apparvero, dopo un po’ di tempo, Gianuario e Proto, segnati nel
corpo, ma non nello spirito. Non vedendo Gavino, capirono, per
miracolo, quello che già poteva essere successo. Non domandarono
di niente e di nessuno, ma, a voce alta, l’Africano disse:
- Fratello mio, Proto, abbiamo una ragione di più per essere felici!
Gavino ci ha preceduti nella casa di Gesù e noi, ora, lo
raggiungeremo, contenti di stare con lui, di non allontanarcene più.
Continueremo a pregare e nessuno ce lo impedirà. Pregheremo
per questa terra, che noi stiamo abbandonando, per tutti quelli che
rimarranno e che continueranno a soffrire! Un giorno li libereremo
tutti, dalle guerre, dagli odi, dalle persecuzioni; dobbiamo crederci,
Proto! La bontà del Nostro Signore non avrà confini nell’universo;
sarà come una grande isola, dove chi rimarrà cercherà pace, giustizia
e amore! e lì troverà! -
Gianuario s’era lasciato andare a questi pensieri, che in lui
maturavano in continuazione, quasi gli fossero richiesti.
Non se ne vantava, ma egli amava pronunciarsi alla sua maniera,
anche perché sapeva che chi l’ascoltava, in quei momenti, ne
rimaneva incantato e meravigliato.
Anche quei quattro l’ascoltarono, ma più per una loro ultima
preghiera o desiderio, mentre allentavano le catene, in modo che
potessero camminare.

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