

DI
GAVINO PUGGIONI
GAVINO PUGGIONI
Gavino, plebeo, era
cresciuto in un ambiente militare rigido, ai tempi
di quel Diocleziano,
Imperatore di Roma e di tante altre province e
non solo, il quale si
era arrogato il diritto divino delle persecuzioni
avverso quei poveri
cristiani, sparsi ovunque, che incominciavano,
davvero, a credere in
una unica Fede, dando così corpo e voce alla
futura verità di Gesù
Cristo.
A diciotto anni era un
giovane aitante e fiero, fiero anche del suo
stato, che assumeva o
avrebbe assunto, più tardi, grande importanza
nella sua vita.
Tant’é che, nelle
gerarchie di allora, il passaggio a tribuno non
tardò ad arrivare, con
grande compiacimento dei genitori e dei
parenti tutti. Egli ne
fu contento, benché sapesse che molti di quei
plebei che difendeva o
condannava, avevano ragioni e atteggiamenti
contrari all’Imperatore.
In terra italica non
ebbe onori, ma quel Diocleziano pensò bene di
procurargliene molti,
almeno sulla carta papirea.
Lo inviò perciò, e
ufficialmente, nell’Isola di Sardegna, dove
erano e arrivavano molti
seguaci del primo Cristianesimo.
Ogni giorno, dalla
Trinacria e dalle sponde dell’Africa,
sbarcavano quei
derelitti, perché perseguitati a causa delle loro
credenze religiose.
Gavino, comunque, ne fu
felice, di questa missione; la accettò e la
rispettò come un ordine
quale esso era e, dopo, in fondo, lui era un
militare, un soldato di
Roma, a cui nulla poteva essere negato.
Arrivò a Turris con
pochi soldati, ma con ordini precisi.
Combattere i ladroni e
distruggere tutto ciò che era nato e stava
nascendo attorno ai
sostenitori di quel nemico, non armato, che era
Gesù Cristo.
Turris, allora, era una
bella cittadina, che allungava dolcemente
una sua proboscide verso
il mare, quasi a voler spiare di mostri o
nemici in arrivo da
altri mondi.
Si estendeva per poche
miglia, a nord-ovest e sud-est, con
agglomerati antichi,
scavati sotto le rocce, e con costruzioni moderne,
richiamanti, tutte, gli
stili e le forme di Roma imperiale.
Di queste ultime
facevano parte le terme e, senz’altro, anche un
bel palazzo che la
storia vuole sia appartenuto al governatore
Barbaro, di Sardegna e
Corsica.
Gavino, col suo
drappello di soldati, arrivò lì e si presentò alle autorità.
Fu ricevuto e accasato,
come si doveva ad un cittadino romano
e si mise subito al
lavoro, armato di tutto punto, impettito
dall’incarico appena
affidatogli.
Camminò, strade larghe,
lastricate, polverose.
Incontrò pastori con le
greggi, contadini con la vanga, dietro
l’aratro, cavalieri che
andavano o tornavano dal lavoro nei campi.
Li salutò tutti e tutti
lo salutarono con deferenza, perché si vedeva
che era uno di fuori,
venuto a fare chissà cosa.
Non vide in loro,
sconosciuti e più di plebei, atti o movimenti che
facessero venirgli alla
mente cose contrarie al mandato, cui lui
doveva attenersi. Si
attivò tutti i giorni in queste lunghe passeggiate
di controllo, non avendo
scoperto alcuna malefatta, né odio verso
l’autorità costituita.
Gli abitanti di quella città, però, non sapevano, o
ignoravano, che diversi
Editti imperiali ingiungevano ai governatori
di stroncare sempre, sul
nascere, l’ideale cristiano, di imprigionare e,
quindi, ammazzare vecchi
e nuovi credenti in Gesù.
Gavino, di questo, era a
conoscenza, ma in Turris, anche se di
quella gente era
popolata, non sembrava vi fossero grosse
concentrazioni o palesi
dimostrazioni di quella fede. Forse, ognuno
se la teneva per se, non
la esternava pubblicamente; la inculcava,
magari, ai giovani figli
e ne andavano orgogliosi.
Un giorno, Gavino venne
invitato a palazzo, dal governatore
Barbaro. Fu accolto con
onore e rispetto, presentato agli altri notabili
commensali, circondato
da ancelle procaci e da abbondanti cibo e
vino. Pareva
soddisfatto, anche se a tale sfarzo non era abituato. La
sua famiglia era modesta
e morigerata, non c’era mai stata
l’abbondanza, figurarsi
la lussuria.
Osservava, mentre
banchettava e parlava con un funzionario,
quanti lo circondavano.
Tutti avevano gli sguardi protesi verso quel
piccolo imperatore,
smodatamente assiso su una grande seggiola di
legno, coi braccioli,
tutta ricamata e intarsiata di piccoli animali
feroci, nell’atto di
aggredire. Aveva le vesti rosse, ampie,
drappeggiate anche
queste in oro, coi ricami degli dei adorati e ogni
suo movimento era
seguito con ansia, quasi si aspettasse una
benedizione.
Alla fine, al cenno di
una guardia, entrarono due soldati che
precedevano due
prigionieri, due disgraziati, che erano stati sorpresi
a rubare.
Dietro di loro, un lungo
banco fatto di aculei di ferro, un po’
dritti, un po’ storti.
Nella sala, tutti
ammutolirono; il gozzoviglìo cessò per dar posto
alla nuova scena, che
nuova non era se non per Gavino.
Barbaro riuscì a
mettersi in piedi, allungò lo sguardo beffardo e
mellifluo sopra tutti
gli astanti e annunciò:
- Soldati di Roma, miei
fratelli, questi due delinquenti si sono
macchiati di un grave
crimine: hanno rubato e, dopo, hanno
ingiuriato il nostro
Imperatore, rinnegando anche i nostri Numi.
Saranno puniti e
straziati sopra quel tavolo, affinché il loro dolore
serva d’esempio a quelli
che non osservano le leggi di Roma. -
Gavino sapeva delle
persecuzioni, degli imprigionamenti senza
ragione, ma, data la sua
giovane età, non aveva mai assistito a questo
genere di spettacolo.
Ne rimase inorridito e,
allo stesso tempo, impietrito, ché lui era
un soldato. Non mosse la
più piccola parte del corpo, anzi i suoi
occhi guardavano con
fissità lo smembramento di quei due suoi
simili, che, poveretti,
riuscivano a non emettere un sia pur labile
lamento.
Il corpo vivo nell’anima
morta.
Fissava quello
spettacolo, mentre gli ospiti si muovevano,
giudicavano e,
provocatoriamente, passavano al cospetto di quei
disgraziati, sfidandoli
con la codardia, con nullessenza umana, con la
forza spavalda di chi é
sicuro di averla e invece non ce l’ha.
Il giudice s’era assiso
nel suo scranno e, forse, non vedeva più
quello che attorno gli
accadeva, tanto alti e penetranti erano
diventati i fumi divini.
L’aria era diventata
cupa e pesante; le torce, ancora accese,
illuminavano facce
stravolte dalla sazietà; corpi scomposti, poggiati
sui giacigli di pietra,
allucinati e incoscienti.
Le abbondanti libagioni
avevano sortito il loro effetto, ma di
questo nessuno si
accorgeva, tranne Gavino, che, ritto come un palo,
scrutava, e pensava a
quanto male si stava producendo, in nome di
una giustizia che lui
ancora non conosceva e che non avrebbe voluto
conoscere.
Immagazzinò tutte quelle
immagini, cercò di dar loro un senso,
una ragione, una sia pur
piccola, esile giustificazione. Non ci riuscì e,
allora, abbandonò quel
baccanale, confuso e offeso nella dignità di
uomo e di soldato.
Prese la via di casa,
ansante, come di corsa, sudato e pensieroso.
Non sentiva nemmeno la
spada che sbatteva, dura, sull’anca sinistra;
gli sembrò di non
incontrare anima viva, fino a Monte Angellu.
Riposò con allucinazioni
e laceranti mal di capo, finché il sonno
sopravvenne.
All’alba uscì e si fermò
su un cocuzzolo di terriccio arido, che gli
permetteva di vedere e
spaziare sull’intera Turris.
Era la prima volta che
ammirava quel posto dove era stato
mandato.
Gli abitanti già si
muovevano per il lavoro, chi verso i campi, chi
verso il mare. Non
notava niente di straordinario, anche se, di tanto
in tanto, gli
apparivano, improvvisi, lampi disegnati da quella
visione truculenta della
sera precedente.
Rimase lì per molto
tempo a vagliare l’accaduto e vegliare su se
stesso, pur non essendo
quello il suo compito.
Dopo prese il cavallo,
ordinò a due suoi soldati di seguirlo, verso
la campagna, verso
l’interno, avendo però, sempre, sulla loro destra
l’isola dell’Asinara.
Subito si imbatterono
nella foce di un grande fiume, dall’acque
limpide e allegre, ai
cui margini erano tante donne, corpulente e
chine a lavare i panni
su pietre levigate. Molti bambini giocavano a
rincorrersi e a lanciar
sassi, più lontano possibile.
L’attraversarono senza
difficoltà e cavalcarono su un grande
ponte, dalle sette
arcate, da dove si poteva vedere tutto il golfo.
Spettacolo meraviglioso.
Avevano davanti il mare e, alle spalle, il
verde della campagna, i
boschi incontaminati e pinete a perdita
d’occhio.
Gavino, tuttavia, non
dimenticava che era un soldato di Roma e
decise di inoltrarsi
nella boscaglia, a fare un giro di ispezione.
Quella terra doveva
essere molto fertile, perché vi pascolavano
molte pecore, buoi e
vacche allo stato brado.
Videro daini e cervi,
che scappavano al loro incontro.
Più addentro,
incontrarono tre ragazzi, tre pastorelli, che
custodivano, da lontano,
le greggi ed erano armati di robuste fionde,
con le quali, caricate a
pietre, cercavano di prendere uccelli che
volavano e starnazzavano
sopra il loro capo.
Si fermarono, i tre
soldati romani, scesero dai cavalli e
incominciarono a parlare
con quegli indigeni, i cui nomi erano
Giovanni, Lussorio e
Antioco.
- Dov’é la vostra casa?
- domandò Gavino
- A qualche miglio da
qui - rispose Giovanni
- E dove sono i vostri
padri? -
- A lavorare nei campi,
a raccogliere il grano! - esclamò Lussorio,
fratello di Antioco e
cugini entrambi di Giovanni.
Gavino si incuriosì e,
visto che il sole era ancora lontano dalla
mezza, decise di
arrivare fino alle abitazioni di quei contadini.
A metà strada, i tre
notarono, in un anfratto roccioso, coperto da
un folto fogliame di
ghiande, un gruppo di donne, assise in circolo
su pietre chiare, che
parevano piangere.
Si avvicinarono e ascoltarono.
Piangevano e pregavano.
- Gesù, dacci la forza
di sopportare questa disgrazia! Lasciaci la
speranza di rivedere la
nostra Anania, troppo giovane e bella, per
averci abbandonati! -
La più anziana di esse,
al centro, elevava le braccia al cielo e
invocava il Signore,
dicendogli di portar via lei, ormai vecchia, e
restituirle la loro
figlia.
- Gesù, Gesù vieni da
noi, fatti vedere, ti aspettiamo! -
Gavino scese da cavallo,
fece due giri di briglia ad un ramo lì
vicino, e si accostò
alle donne, salutandole.
- Buongiorno! -
- Non é un buon giorno,
per noi, signore! La nostra famiglia,
oggi, é in lutto per
questa figlia nostra che ci ha lasciato. E’ caduta,
stamane presto, nel
greto del fiume, ha sbattuto la testa e, dopo, é
annegata. Oh! Gesù,
proteggi la nostra Anania e tutti noi! Gesù, falla
vivere ancora, non ce la
portar via! -
Gavino ascoltò in
silenzio quei lamentii, pur capendo che quelle
donne erano cristiane e,
non solo, imploravano continuamente il
nome di Gesù, senza
alcuna paura.
Disse che era un soldato
romano, mentre gli altri due si
avvicinavano,
minacciosi.
Udito chi erano, le
donne ammutolirono, si scambiarono sguardi
che promettevano niente
di buono, si issarono e, piangenti, col corpo
della congiunta,
ripresero la strada verso casa.
I soldati le seguirono
in rispettoso silenzio, per due miglia circa.
Superato un promontorio,
apparvero le abitazioni e si avvicinarono
con circospezione.
Vennero loro incontro
altre donne, che non sapevano della
disgrazia e ne furono
informate. Scomparvero tutte con l’estinta, per
riapparire, poco dopo,
in gramaglie, pronte a dare l’ultimo saluto. Si
presentarono alcuni
uomini, per lo più, anziani, barbuti, ma eretti
nella schiena e nello
sguardo, ché loro il lavoro dei campi l’avevano
lasciato, ora, ai più giovani.
- E voi chi siete? Da
dove venite? - domandò Pietro
- Noi siamo soldati
romani, io sono Gavino e, per ordine del
Governatore Barbaro,
stiamo controllando tutta questa pianura. -
- E perché? E cosa state
controllando? - incalzò quello.
- Controlliamo che non
avvengano ruberie e che venga osservata
la legge di Roma! -
- E cos’é la legge di
Roma? -
- E’ la legge
dell’Imperatore Diocleziano, che non ammette il
ladrocinio, la falsità e
la religione cristiana, quella predicata da Gesù
Cristo! Voi cosa ne sapete?
-
Quest’ultima frase,
Gavino la esternò quasi meccanicamente,
simile ad un ordine,
anche se non voleva esserlo.
Pietro si rivolse ai
suoi vicini, ma non parve preoccuparsi.
- Noi - disse - ci
rispettiamo e ci amiamo. Crediamo in un uomo,
da qualche tempo a
questa parte.
- Le nostre donne
l’adorano e ne vanno orgogliose. Lo invocano,
lo cercano, forse
l’hanno trovato e a noi questo piace, perché ci fa
vivere in pace! -
- Chi é quest’uomo? -
- Gesù Cristo! - rispose
Pietro, alzando gli occhi al cielo.
I due soldati si fecero
molto dappresso, ma Gavino li fermò, con
atto deciso, anche se
l’ordine di arrestarli doveva darlo lui.
Quell’ordine non lo
diede; spiegò ai suoi subalterni che quelli
erano una colonia
isolata di anziani, che non potevano dar fastidio
ad alcuno. Li salutarono
e, in quell’istante, le donne piangenti si
avvicinarono e si
strinsero ai loro vecchi.
Mentre si allontanavano,
rientravano dal lavoro nei campi, una
decina di giovani, chi a
cavallo, chi a dorso di mulo, preceduti e
seguiti da una torma di
cani latranti.
Gavino seguì quella
scena, non se ne compiacque, (non aveva
fatto il proprio
dovere?), ma, galoppando, mille pensieri
I’aggredirono.
Si poneva domande e non
riusciva a darsi risposte. Osservava le
facce dei suoi soldati,
che erano distratti e superflui.
Ma lui continuava a
macerarsi il cervello.
Cosa aveva fatto? Cosa
aveva visto e sentito?
Perché non era stato
capace di comunicare, almeno, se non di
applicare e far
rispettare la legge di Roma?
Era in confusione,
badava alla strada di ritorno e anche lui
andava distraendosi,
soprattutto per la campagna, per il verde, per
gli animali che, liberi,
correvano e si abbeveravano ai piccoli
rigagnoli e sparivano,
dopo, per la fitta boscaglia.
Ora si interrogava e
pensava a quello che aveva appena sentito da
quegli uomini e quelle
donne.
Non si spiegava, ma
meditava.
Perché doveva punire il
prossimo suo, in una terra così lontana
da Roma, soltanto perché
credeva nel suo Dio?
Non erano ladri, né
assassini; anzi lavoravano tutto il giorno e di
quello che producevano,
tanto sarebbe andato alle legioni
dell’Imperatore. Ma
pensava anche al governatore, il quale voleva
sapere ed essere
informato su tutto quello che accadeva fuori del suo
palazzo.
E qui ebbe un sussulto.
Si fermò e spaziò lontano.
Pensò al soldato che
era, alla fiducia riposta in lui dai superiori e,
adesso, tradita, anche
davanti a testimoni, quali erano i suoi
compagni d’arme.
Si rabbuiò e non fece
caso all’incontro di tanti pastori e contadini
che si avviavano alle
loro case.
Un mendicante osò porsi
a metà strada e allungò le mani scarne
per chiedere un tozzo di
pane. Aveva un drappo scuro addosso e un
cappuccio, sì da farlo
apparire come un ladro. I due lo strinsero fra le
groppe dei cavalli,
quasi a schiacciarlo e mortificarlo ancora.
Gavino vi si oppose
gridando e liberando il poveretto.
Arrivarono a Turris.
Gavino era stanco, molto stanco; una
stanchezza che sentiva
vieppiù in testa, dove sembrava si fossero
dati appuntamento cento
martelletti.
Era giovane, pieno di
speranze, aveva un incarico importante, era
soprattutto un soldato
romano; ma tutto questo, invece di
inorgoglirlo, lo
costringeva a profondi pensieri, a lunghe meditazioni
a interrogarsi
nell’intimo, di uomo libero o succube di un altro,
magari imperatore.
Si diceva:
Io posso ubbidire a
ordini superiori, posso partecipare ad una
guerra, se questa é
giusta, posso anche ammazzare il cosidetto
nemico, posso imporre la
mia volontà agli sconfitti, per altro
rispettandoli, in quanto
più deboli.
Ma per tutti i numi di
questa terra, per l’amore che ci deve legare
gli uni agli altri, per
il rispetto, per l’umanità, per la sua stessa
crescita, non posso
arrestare o buttare in fosse comuni, i miei simili
che credono in un’altra
religione, in un altro Dio, diverso dagli dei
romani.
E mentre credeva di
continuare a strapazzare la sua mente, udì
uno scalpitio di cavalli
avvicinarsi. Andò loro incontro. Erano due
messaggeri del
governatore, che lo invitavano a palazzo per l’ora del
tramonto.
Non si meravigliò
dell’invito, ma continuò a riempirsi la testa di
altri pensamenti, belli
e brutti. Se li tenne con sé tutto il giorno e a lui
pareva di avere nella
pancia, non lo stomaco, ma un vero macigno.
S’avviò, mentre il sole
gia lambiva il mare, in quell’orizzonte tanto
lontano, eppur cosi
vicino, arrivando a Palazzo dalla parte del
grande ponte.
Attraversò alcuni
giardini, coloratissimi di fiori, passò davanti
alle case dei patrizi.
Si fece annunciare e i
soldati lo scortarono fino al grande salone
centrale.
Gavino, in quel momento,
ebbe un cattivo presentimento e si
fermò, ammirando le
colonne, gli ornamenti e gli stucchi di quelle
pareti. Erano già accese
le fiaccole dal sinistro bagliore, mentre la
sala si andava riempendo
di soldati e capitani.
Gallena, una donna
bellissima e attraente, gli si avvicinò, ansiosa
di accompagnarlo al
cospetto di Barbaro.
Lo fece quasi
teatralmente, annuendo e salutando.
Il grande Capo doveva,
invece, fare un sermone ai suoi seguaci.
Tutti, in silenzio,
ascoltarono.
- Miei fedeli compagni,
ho grandi novità da Roma, che diventa
sempre più potente.
L’Imperatore ha in massima stima la nostra Isola
e quella di Corsica e
vuole che i suoi abitanti siano felici e cultori del
lavoro, dell’obbedienza.
Le nostre legioni, in Italia, sono temute e
rispettate, portano ordine
e civiltà. Ieri mattina sono approdate due
nostre navi da carico e
ci hanno portato circa cento soldati, tre
comandanti, lame,
corazze, lance e un nuovo Editto. Voi già sapete
dei Cristiani, che sono
quelli che vogliono imporre la nuova religione
di Gesù Cristo.
Ebbene, Roma e i suoi
amministratori sono preoccupati.
Sono preoccupati perché
stanno crescendo di numero, numero
che non si conosce
perché non lo rivelano; si nascondono, ma
predicano dove possono e
non hanno paura di niente e di nessuno.
Il nuovo Editto ci
impone di combatterli, di scovarli, di arrestarli
e convincerli a credere
negli dei di Roma o, isolandoli, condannarli a
morte.
Io stesso, nei prossimi
giorni, mi recherò nella vicina Corsica, per
vedere coi miei occhi,
come stanno le cose, se vi sono misfatti, e
sentire se questo Gesù
Cristo sta creando proseliti anche colà.
Qualcuno di voi verrà
con me; gli altri rimarranno a Palazzo, perché
desidero essere
informato di quello che accadrà a Turris.
Questo é un ordine e gli
ordini bene eseguiti porteranno a voi e
alle vostre famiglie,
onori, gloria e ricchezze!
Viva Roma! Viva
l’Imperatore! - concluse Barbaro.
- Viva Roma! -
all’unisono risposero i molti presenti.
Gavino seguì quel
discorso con la massima attenzione e non se ne
distolse nemmeno quando
i servi offrirono vino nelle coppe ben
disegnate.
Di lì a poco, apparvero
numerose anceIle, con grandi vassoi di
terracotta, con dentro
carni di maiale e di agnello, con verdura e
frutta.
Di nuovo cadde il
silenzio, poiché le bocche incominciavano a
riempirsi.
Gavino, piano piano,
furtivamente, si era andato defilando, dietro
una delle ultime
colonne, vicino all’atrio, verso l’uscita.
Si trovò subito in riva
al mare e fece un grande sospiro di sollievo
e liberazione, perché e
stranamente, a lui, là dentro sembrava di
soffocare.
Aveva fame, allora si
diresse a casa. Incontrò Ducio, un contadino
alto e robusto, che, a
piedi, tornava da una cava non vicina. Era
stanco e puzzava di
sudore, ma anche di fatica, per cui salutò e
proseguì dietro Monte Angellu.
Dopo aver mangiato,
Gavino si accostò, fuori, ad una grossa
pietra e vi si assise.
La notte stellata gli
permetteva di muovere liberamente lo
sguardo.
Era buio, ma immaginava
di vedere tutto e quel tutto, per lui, non
era uno spettacolo
bello.
Era tornato ai
precedenti pensieri, non voleva abbandonarli,
seppure sapeva
certamente quale era il suo compito.
Nel silenzio, gli sembrò
di ascoltare e sentire qualcuno, un vocìo,
che, dopo, sfumava in
una musica a lui sconosciuta.
Fece ritorno entro le
sue quattro mura e si addormentò
subitaneamente.
* * *
Barbaro arrivò in
Corsica con due navi da guerra, colme di giare di
olio e vino e quanto
serviva per una permanenza più o meno breve.
Con lui portò trenta
soldati e cinque schiave; non porto Gallena, che
era la sua favorita.
Questa Gallena,
orgogliosa e ambiziosa, era pur sempre una
plebea, ma assurta a
quel rango per la sua statuaria avvenenza, per i
suoi intriganti
movimenti, nonché per la sua astuzia.
Si aggirava nel palazzo,
dalla mattina alla sera, e anche durante la
notte faceva qualche
scorribanda d’amore. Era, forse per questo,
molto rispettata;
soldati e maggiorenti sapevano ma non dovevano
sapere, come d’altronde
Gavino, che evitava quegli incontri, che
casuali non erano mai.
Barbaro, a Bonifacio, godeva
della sua lussuria, in un palazzo
messogli a disposizione
dai notabili del luogo.
Non erano in molti e i
suoi soldati non si allontanavano più di
tanto, per paura di
imboscate e rappresaglie.
Poiché anche lì regnava
una specie di anarchia, incominciava ad
annoiarsi, essendo
quella città poco abitata.
Era popolata, invece, la
campagna, dove era molto sviluppata la
pastorizia, con intere
vallate colorate di verde, ove erano anche
numerosi branchi di
armenti. Era un altro eden da scoprire, ma
arrivando dal mare, da
sud, tutta quella costa incuteva paura, per le
grandi e lunghe
spelonche che vi si aprivano, a picco sul mare, e che
facevano pensare, di
certo, alle prime abitazioni dei Lestrigoni.
In un secondo tempo,
arrivarono a Bonifacio altri personaggi di
secondaria importanza,
chi fuggitivo, chi naufrago, chi assetato di
conoscenze nuove.
Fra questi, spiccava,
per la sua personalita e l’orgoglio mai domo,
un vescovo africano, di
nome Gianuario, accompagnato da un suo
fido diacono, di nome
Proto. Erano certamente cristiani e venivano
da molto lontano,
cacciati dai vandali, privati di ogni loro avere,
esiliati per punizione.
Chiesero ospitalità, che fu loro accordata dal
governatore, in cambio,
però, della loro sottomissione alla legge di
Roma.
Non fu facile accettare
questa nuova condizione, che, tuttavia, per
loro, rappresentava
un’ancora di salvezza, per proseguire in quel
cammino di fede, ormai
tracciato.
Accettarono anche talune
mollezze e comodità, che Barbaro aveva
loro regalato;
ascoltarono tutti i sermoni, tutte le ingiustizie e misfatti
posti in essere da quei
soldati, che, dopo, venivano elogiati e
premiati, per la fedeltà
all’Imperatore di Roma.
Il governatore aveva
notato subito l’affabilità e la buona
disposizione dei due
nuovi arrivati, per cui non tardò un minuto a
dar loro la massima
fiducia, nominandoli ambasciatori suoi in quella
terra, sconosciuta e
poco visitabile.
Ogni giorno, alla sera,
li voleva ascoltare, facendosi trascinare
anche dai dialoghi
forbiti e colti di Gianuario. Il quale raccontava,
essendo lui un
viaggiatore, di bellissime terre lontane, di civiltà
antichissime e di quelle
all’avanguardia; di guerre vinte e di guerre
perdute.
E tutta questa sapienza
coinvolgeva emotivamente la mente e il
corpo di Barbaro, che
ascoltava allibito, ignorante com’era. E il più
delle volte, la giornata
si concludeva con un invito a cena, in onore di
quei due ospiti, tanto
gentili, quanto sottomessi. Almeno così
sembrava.
Gianuario, quindi,
sempre accompagnato da Proto, si spostava in
quel territorio,
abbastanza liberamente e poteva vederne i suoi
abitanti, laboriosi e
silenziosi. Ubbidivano, da sempre, alle leggi della
natura, a queste
andavano incontro tutti i giorni e non si
lamentavano.
Scoprirono, quei
pastori, le maglie della legge con la presenza,
per altro saltuaria, dei
soldati romani, ma non potevano essere
assoggettati, in quanto
non formavano mai gruppi omogenei. Isolati,
con le loro bestie,
erano in continua transumanza.
L’Africano, contento di
questo stato di libertà, a lui sconosciuto,
era anche felice e
orgoglioso e lo si poteva notare quando parlava
con quegli indigeni. E
non sempre di cose dotte si discuteva,
ammesso che qualcuno ne
avesse possibilità. Anzi. Gli argomenti
riguardavano, proprio,
la terra calpestata, i pascoli seppure
abbondanti, la
difficoltà di incontrarsi e socializzare, di conoscere.
Qualcuno, però, parlò
anche di incursioni misteriose, soprattutto
di notte, effettuate da
uomini sconosciuti, a cavallo, vestiti di pelli di
capra e armati di
bastoni, a volte a forma di lance appuntite. Erano,
questi, molto decisi e
audaci, perché razziavano tutto ciò che
incontravano nel loro
cammino, uccidendo, anche inutilmente, chi si
opponeva alle loro
scorrerie.
Gianuario pensò subito
ai Vandali, da lui ben conosciuti in terra
d’Africa e dai quali
subì spaventose angherie, costringendolo a fare
l’esule in casa propria,
sfuggendo e correndo da un paese all’altro,
tra mille difficoltà e
indicibili umiliazioni.
Ma di questo non ebbe a
preoccuparsi più di tanto, perché la sua
missione, difficile e
pericolosa, non stava incontrando ostacoli.
Poteva parlare quasi
liberamente della sua Fede e ciò gli dava
vieppiù animo e
coraggio, dimenticando, tuttavia, che anche in quel
pezzo di mondo, c’era un
padrone, che voleva essere assoluto, e del
corpo e del pensiero.
Allora si fermava e
rifletteva; pensava a quanti suoi simili, ogni
giorno, cadevano sotto i
colpi dell’odio, della sopraffazione, delle
ingiustizie e di tutte
le eresie. Pensava al suo popolo cristiano, che
non poteva pregare, che
non poteva divulgare la parola di Cristo,
perché ve ne era
interdetto.
Quel popolo guardava e
ascoltava, non avendo altra possibilità.
Gianuario continuava per
la sua strada, in un silenzio a lui
gradito, ma, alla lunga,
anche troppo irreale.
Ebbe a fare diverse
visite nella residenza del governatore, un pò
per dovere di
ospitalità, un po’ perché convocato espressamente a
Palazzo, per sentire da
lui quali avvenimenti, quali novità si
andavano, man mano,
presentando. Il governatore stesso,
d’altronde, aveva riposto
in lui grande fiducia, poiché sapeva della
sua cultura, della sua
grande predisposizione ai rapporti umani,
soprattutto verso gli
sconosciuti.
Di questo si
inorgogliva, poiché il grande capo romano non aveva
ancora capito che lui
era un cristiano, un grande cristiano, che
combatteva senza armi,
che credeva in un solo Dio, che odiava i
vandali, Diocleziano e
tutti i romani guerrieri e predatori come lui.
Seguiva quell’unica via
della Fede, ormai delineata dall’amore
verso il prossimo,
compresi i suoi nemici, che non sapevano.
A Bonifacio erano
arrivati ancora molti fuggiaschi, da oltre il
mare Tirreno, dalle
coste e dai litorali di Roma, dove le leggi
dell’Imperatore erano
diventate più dure e persecutorie. Fuggivano a
costo di qualsiasi
sacrificio e arrivavano, derelitti e schiavi, legati in
catene e affamati, su
navi mercenarie, assieme a soldati, mercanzie
varie e gente come loro,
credenti e miscredenti, comunque
condannati all’esilio.
Gianuario conobbe molti
di questi e non ebbe a meravigliarsene,
avendo lui già subito e
sopportato la stessa sorte.
Impegnò se stesso e
l’amico Proto in una nuova azione di
contatto, di conoscenza,
di alleviamento del dolore immenso di quei
disgraziati e lo andava
facendo alla luce del sole, fidando piu sulla
protezione del Signore,
che nel silenzio, nella noncuranza, nel non
controllo, da parte di
quei pochi soldati, impegnati a proteggere
quell’uomo divino.
Ma non durò a lungo quel
lavoro d’amore e di pietà.
Fu interrotto
bruscamente una mattina, all’alba, mentre, in un
pianoro nascosto da
rocce e alberi, alcune decine di seguaci stavano
ascoltando la parola di
Gianuario, che teneva sulla mano sinistra una
grande croce di legno e,
con la destra, faceva ampi segni di assenso
verso quella povera
gente, che già l’adorava.
Soltanto pochi
centurioni irruppero in quell’angolo, sembrato
inaccessibile;
consegnarono all’Africano un comunicato di Barbaro,
scomparendo nel nulla,
senza minaccia alcuna.
Gianuario finì la sua
predicazione, non incoraggiando alla
ribellione quei senza patria,
né terra, né dignità, ma invitandoli a
sopportare, ad amare, a
capire quel periodo di vita disgraziato, a
rafforzare l’unione fra
di loro, a credere in un domani più felice, più
libero dai tiranni, più
vicino al Signore.
Andò via da quel luogo
ad ora tarda, molto stanco, con la mente
confusa da pensieri che
finivano per opprimere anche il suo fisico,
ben abituato a piu
pesanti offese.
Lo seguiva sempre il
fedele Proto, pronto a tutto, a tutti i sacrifici
che quella vita
richiedeva. Parlava poco, ma era attivo comunque,
per tutte le necessità
pratiche. Era un gran lavoratore, credeva a
quello che stava
facendo, adorava il suo Vescovo e a molti, quando
capitava, parlava in sua
vece. Credeva fermamente nell’avvento di
Gesù Cristo e si
dichiarava suo fedele e umile servitore.
Il giorno seguente a
quell’avviso, Gianuario doveva recarsi a
Palazzo.
Vi andò quando il sole
stava per prendere la via del tramonto e la
luce era ancora vivida,
con un vento gelido che spazzava contrade e
alberi.
Di fronte all’ingresso
principale c’era una gran calca di persone,
qualche soldato armato e
un vocio che tardava a farsi capire.
Avvicinandosi, s’accorse
che molti uomini e donne sostavano per
terra, o sui gradini, in
posizione eretta o prostrati, in atto di chiedere
qualcosa.
Gianuario voleva capire
cosa stava avvenendo, ma non si
capacitava.
Era incredulo, ma lui,
quello spettacolo, l’aveva già visto, non era
certo una visione.
Si fece spazio attorno
con forza, riconobbe qualcuno che aveva
partecipato alle sue
prediche clandestine, lo salutò solo con lo
sguardo, guadagnando
l’interno del palazzo. Si spinse ancora oltre,
fino ad arrivare sul
retro, ove era una specie di anfiteatro naturale,
fatto di rocce, di
granito e di gradoni, con al centro un grande campo
incolto.
Questo campo, ora, era
popolato di plebaglia, ammucchiata tra le
pietre e il fango, che
piangeva e urlava. Ancora tanti soldati, ma
anche mercenari, muniti
di bastoni e strisce di pelle grezza, che si
affannavano a frustare e
pestare quei disgraziati indifesi. Ai lati,
insospettati, si
aggiunsero molti guerrieri armati, che incitavano alla
violenza gli altri, fino
a far apparire il tutto come una bolgia
infernale, da cui vivi
non si può uscire.
Gianuario e Proto erano
impietriti, increduli e, allo stesso tempo,
coscienti di quello che
stava avvenendo.
Non avevano visto ancora
Barbaro, che pareva attendessero.
I due non parlarono, ma
si resero conto, ben presto, di quello che
stava per accadere. Non
si erano accorti, però, che tre centurioni e
diversi soldati stavano
accerchiando proprio loro, con fare
minaccioso e
inequivocabile.
Le urla di disperazione
e di dolore, i colpi di frusta e di bastone,
coprivano ogni
espressione orale, per cui bisognava essere molto
vicini per essere
intesi.
- Gianuario! Proto! -
ordinò uno dei due capitani - dovete
seguirci in silenzio, al
cospetto di Re Barbaro!
Annichilirono e già
pensavano alla parola Re, che guel
governatore si era
abusivamente attribuita.
Lì, a Bonifacio, non
avevano mai visto tanta folla, per di più
vociante e scalmanata.
Ma dove l’avevano trovata? Un
rastrellamento? Un boato
quasi di gioia e un brusio continuato, alla
fine misurato, accolse
l’arrivo di Barbaro, su un falso trono calcareo,
vestito dei suoi gradi,
pomposo nel portamento viscido e scomposto.
Rimase in piedi e
spaziò, con lo sguardo, in quell’arena,
accomodante e
sprezzante, come dovesse distribuire pane e acqua ai
bisognosi.
Un grigio silenzio si
impadronì di tutto e di tutti. Non volavano
neppure cornacchie o
rapaci.
- Gente di Corsica! -
esordì il divino -
Io volevo amarvi, volevo
faceste parte del mio grande popolo;
volevo la vostra
ricchezza, ma, prima ancora, la vostra libertà, la
vostra felicità. Vi ho
seguito nei vostri spostamenti. Eravate pochi,
ma laboriosi. Avete
calpestato una terra che é un dono dei nostri dei,
che ci proteggono.
Questa terra é grande, e fertile; avete a
disposizione molte
capre, pecore, buoi, vacche, cavalli e i frutti che
ogni giorno il nostro
Imperatore vi fa cogliere. Avete una terra che é
come una grande madre,
che si prende cura dei propri figli !
Faceva fatica a parlare
e, di tanto in tanto, si voltava verso i suoi
capitani, quasi a
chiedere aiuto, a sorreggerlo in quell’impresa, assai,
assai difficoltosa.
Cambiò tono alla voce, la fece più cupa e
penetrante.
- Tutto questo tesoro,
ora, voi, l’avete perduto!, non siete più
degni di vivere con
esso, perché l’avete rovinato, spaccato, derubato,
reso polvere, di nessun
valore...... non meritate.... - già sproloquiava,
mentre un leggero
mormorio si alzava, verso le prime ore del vespro.
- Guardatevi in faccia!
non siete degni della vostra stessa
vicinanza; avete tradito
voi stessi, ma, quello che più conta, avete
tradito me, le leggi di
Roma, l’Imperatore Diocleziano e tutti i nostri
dei! Queste terre non
saranno piu vostre! saranno del diavolo e di
tutti quei diavoli che
qui sono arrivati e hanno creduto di poter
accendere nuovi
fuochi............. -
Quella gente capiva poco
o nulla di quel discorso distorto, ma
incominciava ugualmente
a preoccuparsi. Quei pastori si spiavano
l’un l’altro, guardavano
quel grande personaggio sconosciuto;
guardavano anche verso
Gianuario e Proto, che erano stati fatti
avvicinare ai piedi di
quel finto trono, sempre controllati da vicino.
Qualcuno, al centro del
campo, urlò e inveì contro quel sermone e
fu come un tuono
improvviso, solitario. Quel coraggioso fu subito
abbattuto; si sentì un
solo lamento e, poi, fu di nuovo silenzio, fu di
nuovo paura.
Altri soldati armati si
erano mischiati ai presenti, che non avean
neppure la forza di
stare in piedi. Barbaro, trafelato e rabbioso,
riprese il suo discorso:
- La forza del nostro
impero é in ogni dove, nel mondo! I nostri
soldati, quando
arrivano, sono acclamati e vengono portati in
trionfo; le nostre
divinità sono rispettate e adorate!
Voi, gente di Corsica,
chi adorate, chi rispettate, chi vi protegge? -
urlò in segno di sfida.
- Gesù Cristo é il
nostro Dio! - gridarono alcuni a squarciagola e
pronti, evidentemente, a
subirne le conseguenze.
Altri istanti di
silenzio, mentre una leggera pioggia aveva preso il
posto del vento gelido.
Numerosi soldati
circondarono quei plebei che tanto avevano
osato. Ebbero tante di
quelle bastonate e colpi di scudiscio che
caddero, sanguinanti, ai
loro piedi. Furono trascinati di fronte al
grande aguzzino, tra
insulti, pianti e minacce. Si ribellarono tutti, ma
non mossero gamba,
poiché erano lì, a proteggerli con la forza.
Lì vicino, erano anche
Gianuario e Proto, presenti assenti.
- Ecco - riprese Barbaro
- il vostro tradimento! Ecco la vostra
intelligenza! Ecco la
vostra fedeltà!
Noi, oggi, faremo un
grande sacrificio! Offriremo i vostri corpi
esausti ai nostri dei,
che ci daranno premio e gloria per la vita! Voi,
invece, poveri
cristiani, non godrete di nulla, non avrete né gloria, né
fama! avrete la morte,
la vostra morte, che voi stessi avete cercato e
trovato! Ammazzateli!
Decapitateli e buttateli in una delle tante forre
di questo pezzo di isola
! -
Subitaneamente,
Gianuario si fece avanti e scoprì, dal suo
mantello, quella croce
che aveva sempre portato, mostrandola a quel
giudice dissennato e
affrontandolo solo con la parola.
Ancora silenzio di tomba
e attesa febbrile.
- Barbaro! - incominciò
l’Africano - tu non hai il diritto di disporre
della vita di questi
uomini. Tu non puoi condannare questa gente,
perché ha un solo Dio;
tu non puoi, in quanto rappresentante di un
grande Impero imporre
una giustizia, errata ed iniqua in tutti i sensi,
abietta e non degna di
un popolo che vuole portare civiltà. Non puoi
e non devi uccidere,
soltanto perché vogliono appartenere ad
un’altra religione.
La tua, di religione, é
atea! Crede nell’acqua, nel sole, nella luna,
nel mare; crede alle
pietre, sacrifici uomini e animali in nome di
queste cose terrene. E
queste cose terrene, devi saperlo, sono state
create da un solo uomo,
che é Dio!
Anzi - e il suo dire
divenne piu accorato - sono sicuro che tu non
farai ammazzare questi
poveretti. Li devi salvare, perché sarò io a
cadere sotto i tuoi
colpi maledetti, sarò io a morire per loro, perché io
sono stato, sono e sarò
sempre un sacerdote cristiano, seguace di
Gesù, fin dalla nascita!
Non mi fa paura la morte! Sono nato cristiano
e voglio morire da
cristiano, salvando i corpi e le anime di questi
derelitti credenti!... -
Barbaro si mosse con
impeto verso i suoi ufficiali, mentre Proto si
stringeva al suo vescovo
e piangeva.
Le guardie non osarono
toccare Gianuario, rimasto in piedi come
una colonna, lo sguardo
duro e profondo, sebbene il corpo fosse
pronto a subire quelle
indicibili sofferenze, a lui già note.
Furono momenti di grande
confusione. Ognuno occupava pochi
centimentri quadrati di
quel campo e a nessuno venne in mente di
spostarsi di quel poco
che avrebbe potuto causare una reale grave
sommossa. Lo
sbigottimento e la paura furono tali, che quei corpi,
eretti o sdraiati, parevano
mummificati, mentre quella leggera
pioggia li ripuliva e li
rendeva simili a cristalli.
- Isolani! Disgraziati!
Poveri cristiani! - si mise a urlare Barbaro -
E’ finito tutto! Sono
stato offeso gravemente da uno di voi - e indicò
con la mano il suo accusatore
- ma é stata calpestata e umiliata la
nostra grande Roma, con
tutte le sue leggi e i suoi ministri!
Vi prometto la mia ira e
la mia vendetta, se ciascuno di voi non
ottempererà a quanto
andrò dicendo: I miei soldati vi lasceranno
liberi, ritornate alle
vostre campagne, alle vostre greggi e armenti.
Dite alle vostre donne e
ai vostri figli che il governatore di questa
isola ha perdonato il
vostro peccato, ha dimenticato il vostro
tradimento......... -
- Grazie al Cielo!
Grazie mio Dio! Grazie Gesù! - esclamarono
all’unisono Gianuario e
Proto -
Grazie perché hai
illuminato della Tua Fede quest’uomo che ci stà
accanto! Preghiamo,
preghiamo per la sua vita, per il suo amore!..... -
- Buffoni, ciarlatani,
sobillatori di anime ignoranti! -
l’interruppe Barbaro,
che fece colpire i due con continue
scudisciate e anche con
colpi di spada ai fianchi.
- Non vi ho dato parola,
né mai ve la darò! Ho ancora bisogno di
voi, altrimenti le
vostre lingue sarebbero già mozze! Guardie! Portate
via questi due delinquenti
e rinchiudeteli in una piccola cella,
sigillata con mille
catene! Andate!
E voi, gentaglia!
tornate al vostro lavoro! -
Qualcuno plaudì
timidamente, ma la gran parte di quegli esseri
umani prese ad
andarsene, sommessamente, terrorizzata, così
com’era arrivata.
- Ho anche preso questa
decisione - continuò rivolgendosi ai due
malcapitati cristiani -
Presto, domani o dopo, comunque con la prima
nave che salperà, vi
farò esiliare all’ Asinara, isola selvaggia, piena di
animali feroci e
serpenti e con loro finirete i vostri giorni, sicché più
nessuno abbia ad
incontrarvi, per sentire quelle eresie e quelle ciance
del vostro Cristo!
Portateli via! - e se ne andò furibondo e paonazzo
coi suoi soldati.
Gianuario e Proto
accettarono ancora questa condanna e non
pronunciarono parola; si
segnarono col segno di Gesù e, sprezzanti,
seguirono i loro
carcerieri.
Forse, per loro,
cominciava una nuova più difficile vita.
Si resero conto di
andare verso un duro isolamento, verso nuovi
sacrifici, che,
tuttavia, avrebbero affrontato con forte abnegazione.
Pregarono in silenzio.
* * *
Durante l’assenza del
Governatore, avvennero altri fatti e disgrazie,
che interessarono poco
le gerarchie, ma colpirono la popolazione
tutta.
A Turris erano sbarcati
molti disgraziati ancora, uomini e donne,
provenienti dall’Africa
e anche dalla Sicilia.
I più stavano morendo di
fame, ma altri erano tremendamente
malati, segnati nel
corpo e nella mente. Non furono aiutati e
tantomeno protetti.
Anzi, furono scacciati dai soldati, che non fecero
che abbandonarli lungo
il litorale, alla loro sorte. Qualcuno si salvò,
miracolosamente si
diceva, e andò vagando per la città, ad
elemosinare e pregare
anche lui quel Gesù, di cui tanto ormai si
parlava.
Per i cristiani non
potevano esserci adunanze pubbliche, però,
chissà come, si
trovavano; o fuori della cinta urbana o in grotte
formate dal vento, che
offrivano anche, sembrava così, una certa
sicurezza fisica. In
queste grotte, sulle pietre, sulle pareti, lasciavano,
tuttavia, i segni dei
loro incontri, della loro religione, del loro dolore.
La croce del loro
Signore simboleggiava tutta la vita e a quella si
affidavano. Lentamente,
ma il velo che li nascondeva si andava
aprendo, lasciandoli
indifesi, con la loro Fede, di fronte a quei
soldati, pronti a repprimerli,
secondo la legge di Roma.
Gavino venne a
conoscenza di questi episodi e se ne preoccupò,
conoscendo la barbarie
di alcuni comandanti. Si precipitò a Palazzo e
fu portato a colloquio
da Giulio, che era l’alter ego di Barbaro,
assente.
Giulio sproloquì, con
rabbia, davanti ai suoi subalterni.
- Ascoltatemi! E’ già da
numerosi giorni che in città stanno
accadendo fatti
intollerabili. Mi hanno riferito che, ormai, questi
cristiani si fanno
vedere dappertutto, si riuniscono dove vogliono,
pregano questo loro
Cristo, non accettano i nostri ordini, anche se
taluni, pentiti, ci
hanno aiutato a scovare i luoghi delle loro riunioni.
Quanti ne sono stati
trovati, tanti ne abbiamo condannati a morte.
Ora basta! Questi
disgraziati, comprese le loro donne, devono essere
eliminati uno per uno,
così da evitare che questa storia diventi più
lunga. Il Governatore
non ne é ancora a conoscenza, ma non voglio
che lo sia, per tutti
gli dei di Roma! Ne andrebbe della stessa nostra
vita, se lo sapesse.
Perciò vi ordino, soldati di Roma: andate,
prendeteli, anche nel
dubbio, e imprigionateli in caverne sicure, fino
al processo. -
- Viva Roma!
- Viva! - risposero i
presenti.
Gavino ascoltò, ma
trasalì quando si accorse che Giulio si stava
avvicinando a lui.
- Ave, Gavino! Sono contento
che ci sia anche tu, arrivato dalla
capitale del nostro
Impero da poco!
Come hai sentito, questi
cristiani sono sempre più numerosi e
prepotenti. Credono di
fare proseliti nel popolo ignorante, perché
raccontano di miracoli,
di guarigioni, di visioni celesti e di tante altre
panzanate. Noi, lo sai,
dobbiamo far credere il contrario..... -
- Ma noi - interruppe
garbatamente Gavino - noi non
possiamo...... -
- Come non possiamo?..!
- si meravigliò Giulio.
- Si, ma.... no, perché
volevo dire solo che un soldato di Roma
non può ammazzare uno
qualunque, seppur plebeo, perché é
sospettato di
appartenere a quella religione! -
- Non può? - digrignò i
denti quello - Può, può, e come! Nel
nome di Diocleziano si
può tutto, perché c’é scritto anche negli
Editti, che sono ordini,
che sono legge. Capito?
- Si, si, ho capito! - e
Gavino accettò, suo malgrado, quelle parole,
che, nella sua testa,
risuonavano come mille campane. Si prese una
pacca sulle spalle e se
ne andò.
Si rifugiò a Monte
Angellu e lì, spogliato delle sue armi, rimase,
col capo fra le
ginocchia, a scavare nel suo animo. Era seriamente
preoccupato per quello
che stava accadendo.
- Buonasera Gavino! -
era il saluto di Flavia, la moglie di Ducio -
mi sembri addolorato,
cos’hai? - Gavino non rispose subito, ma
guardò intensamente quel
volto di donna, quasi a cercare qualcosa di
diverso da quello che
aveva visto prima, nella faccia di Giulio.
Stranamente la trovò e,
allora, si mise in piedi e, intimamente,
ringraziò quella donna,
per averlo distratto.
- Flavia, ti saluto, ma
dov’é tuo marito? -
- Arriverà tra poco;
alla cava bisognava finire, perché alcuni
uomini avevano preteso
che lavorassero più a lungo! -
- E perché? -
- Non lo sò! Hanno
mandato via noi donne e lì sono rimasti
Ducio, Valerio, Lucio e Vito.
-
Gavino credette poco a
quelle affermazioni e pregò Flavia di
andare a casa. Si
rivestì della sua divisa, prese la spada, montò sul
cavallo e corse al
galoppo verso la cava. Quando vi arrivò era quasi
buio e non s’avvide di
una grossa pozzanghera d’acqua. Vi finì
dentro, come un bambino,
disarcionato e, dopo, scoppiò in una
risata.
Non vedeva alcuno,
mentre procedeva a piedi, tenendo la briglia
del cavallo, finché non
inciampò in qualcosa di molle e, allo stesso
tempo, resistente. Si
fermò, tastò con le mani e si accorse che era un
uomo.
Guardò meglio attorno e
vide le facce, stravolte come i corpi, di
quei quattro lavoratori.
Erano esanimi e uno si lamentava e
imprecava.
Era Ducio, che piangeva
i suoi compagni.
- Chi é stato? Cosa é
successo? -
- Oh! Gavino, sei tu?
Una cosa infame, potevano ammazzare
anche le nostre donne!
Disgraziati! Assassini! Flavia, assieme alle sue
amiche, in nostra attesa
e distanti, stava pregando per noi e i nostri
figli, quando sono
sbucati da quell’angolo, quattro soldati romani. Le
hanno allontanate
bruscamente, con le spade, minacciandole.
Si sono avventati su di
noi, che stavamo portando a termine il
nostro lavoro. Ci hanno
colpito con la frusta, con la spada, nel corpo,
nelle gambe, alla testa.
Abbiamo resistito, urlato, invocato il Signore,
per quella cattiveria
che stavamo subendo, ma non c’é stato niente
da fare. Erano belve,
maledicevano noi e Gesù Cristo; continuavano,
come forsennati, a
colpirci. I miei compagni non ce l’hanno fatta! Io
mi sono salvato, perché
ho fatto finta di essere già morto. Che
disgrazia!
Come facciamo per
avvertire le loro mogli? -
Gavino non aveva parole,
né pronte, né future. Il buio della notte
nascondeva qualsiasi
espressione; il silenzio favoriva il dolore e la
paura.
Entrambi si avvicinarono
ai tre corpi immobili, li trascinarono al
riparo, in una vicina
grotta, coprendone il piccolo ingresso con delle
ramaglie. Non avevano
l’animo tranquillo, si sentiva l’ululato di
qualche cane o lupo,
forse in amore.
Si spostarono a fatica
da quel luogo maledetto e già discutevano
del modo con cui
avrebbero dovuto comunicare la ferale notizia alle
mogli di quei tre
poveretti.
Camminavano, con Ducio
dolorante ad un braccio e alla testa, e
non vedevano nemmeno le
stelle, se non quelle della sofferenza. A
causa di ciò,
impiegarono più tempo per arrivare alla periferia di
Monte Angellu. Trovarono
le donne sulla soglia di casa, e pareva già
sapessero di tutto.
Erano afflitte;
nell’attesa avevano immaginato cosa poteva essere
accaduto.
S’assisero e piansero, tormentate,
fino all’alba, pregando.
Anche in questo
frangente, Gavino non ebbe esitazioni e remore;
si comportò da uomo
vero, indipendentemente da quello che era.
Non disse nulla che
potesse offendere il loro credo, la loro
disgrazia, pur avvenuta
per colpa di suoi compagni.
Divenne muto, ascoltò
quei lamenti, guardò quelle donne
disperate, che
l’abbracciarono e lui ne provò grande commozione,
fino a dire, ma solo a
se stesso, quanta ingiustizia, quanta infamia,
correva in quelle
contrade, segnate sì dalla vita e, soprattutto, dalla
morte, quella violenta.
Non cercò
giustificazioni; piuttosto si trovò a cercare una sua
pace interiore, che
tardava ad arrivare. Era sconvolto e, a volte, si
accorgeva che il suo
corpo tremava e dalla febbre e dalle vertigini.
Se ne rendeva conto ma,
dopo, si esaltava per lo spirito e la forza
profusa, donati agli
altri, così, senza avere niente in cambio.
Questo, nella sua
solitudine, lo inorgogliva e, in pari tempo, lo
allegeriva di quei
macigno-pensieri, che lo trasportavano, giocoforza,
a quella dura realtà di
cui faceva parte.
* * *
Barbaro, ormai re delle
due isole, sbarcò a Turris dopo quasi sette
giorni di navigazione.
Lui ed il suo equipaggio arrivarono a mezza
giornata di un inverno
rigido e infernale, almeno per quello che
avean patito durante la
traversata.
Avevano rischiato di
morire tutti annegati, in specie fra la
Sardegna e la Corsica, e
a nulla erano valse tutte le loro invocazioni a
divinità del cielo,
della terra, delle acque. Le loro due navi vennero
spazzate e sconquassate
da un mare incattivito, che sembrava non
volere quel peso sopra
le sue onde. Persero tutti i beni di
sostentamento, sicché
rimasero per qualche dì, privi di cibo e acqua.
I loro corpi, seppure
integri, erano segnati, da capo a piedi, dalla
fame, dalla sete, dalla
violenza dei marosi, fino a non riconoscersi
nelle loro sembianze. Il
grande capo era seminudo, come tutti gli
altri, che ebbero la
forza di saper usare i remi soltanto quando era
necessario. Lui non fece
altro che imprecare a tutto e a tutti,
implorando, a volte, il
suo Imperatore perché intercedesse presso i
suoi déi protettori.
Ebbe la salvezza non
tanto per le sue preghiere atee, quanto per la
forza, per il sacrificio
dei suoi soldati, i quali, oltretutto, dovevano
salvare la propria
pelle.
In città non sapevano
del suo arrivo, sicché trovò i suoi sudditi
dediti ad un grande
baccanale, per festeggiare la condanna a morte
di molti cristiani,
scovati nelle campagne circostanti una estesa
miniera.
Giulio, il suo vice, non
s’avvide dell’ingresso a palazzo del suo
capo, fino a quando
questi non dichiarò la sua presenza, urlando e
cianciando quanto le
forze glielo permettevano.
Ci fu un attimo di
smarrimento, ma compiaciuto, dopo, perché
quel baccanale continuò
ancora più orgiastico, visto che Barbaro e i
suoi avevano una grande
fame e una grande sete.
Finì tutto in un
silenzio surreale, fradici di cibo e vino.
Gavino seppe di questo
avvenimento, ma non vi diede molta
importanza. Era
impegnato in altre ispezioni nei territori a sud e a
ovest di Turris, dove
conobbe altri nuclei familiari, che vivevano di
pesca, di agricoltura,
che coltivavano la vite. Si imbatté in gente
laboriosa e in molti
nuovi cristiani, che osavano anche predicare e
nominare Gesù.
Con taluno, di nome
Adriano, iniziò a parlare della famiglia, dei
figli, anche di Roma e
delle sue leggi.
- Non conosco alcuno dei
tuoi compagni, nessun soldato é mai
venuto da queste parti -
disse Adriano e continuò : - Ho sentito
dell’Imperatore di Roma,
delle leggi, degli Editti. Ma io devo pensare
solo alla mia famiglia,
ai miei figli, a farli crescere sani e laboriosi.
Non vado a Turris da
molto tempo; tutto quello che mi serve é qui e
non desidero altro. Mia
moglie e le altre donne, e in queste
campagne ce ne sono
tante, si dedicano alla cura della casa e dei
bambini; si riuniscono,
al tramonto, in preghiera, perché l’amore
prevalga su di noi e
tutti quelli che ci circondano! -
- Quale amore? -
interruppe Gavino
- L’amore di Gesù
Cristo, che ci sta proteggendo e speriamo
continui a farlo! -
- Chi ti ha parlato di
questo Gesù? -
- Un grande amico,
Ducio, che abita a qualche miglio, verso
Monte Angellu! -
- Ducio?! - esclamò
Gavino e già non poteva che approvare, in
cuor suo, quelle parole.
Gavino tornò sui suoi
passi, era oltre la zona di Balai e da lì, col
suo cavallo, raggiunse
il porto, dove c’era il solito movimento di
barche che rientravano.
Alcuni pescatori,
riconoscendolo, gli regalarono dei pesci, che si
affrettò a portare a
casa, ma non quella sua. Li donò a Flavia, con la
scusa che voleva parlare
con suo marito, Ducio, che arrivò poco
dopo.
Si trovarono a tavola
imbandita in cinque, perché si aggiunsero i
figli, Silvia e
Simplicio, appena arrivati dal centro del paese.
I due, già grandicelli,
erano allegri e scanzonati, ma, nonostante la
presenza di un soldato
romano, non esitarono a fare cronaca di
quello che avevano
visto.
- Non lontano dal
palazzo del governatore, alcuni genitori, padri
e madri, gesticolavano e
vociavano contro tre guardie, le quali
tenevano sotto catene
due giovani. - prese a dire Silvia - Erano stati
sorpresi - dicevano - a
rubare pelli di capra, in un cortile e arrestati.
Si dimenavano e
protestavano, nonostante qualche scudisciata. - Le
pelli le avevano trovate
abbandonate, fuori da quel recinto e dopo
nessuno le aveva
reclamate, gridavano la loro innocenza.
- Ma perché quei
genitori erano lì, coi loro figli? - domandò
Gavino.
- Perché i soldati
fecero irruzione nelle loro abitazioni! - disse
Simplicio e finì in una
risata.
Il pranzo terminò e
Ducio fece cenno col capo a Gavino per
uscire.
- Il nostro lavoro alla
cava é cessato. Ora ci fanno lavorare in una
miniera di ferro. E’
molto faticoso e siamo sempre controllati da
persone sconosciute.
Hanno paura che il materiale estratto venga
rubato e prima di andare
via ci fanno spogliare, fino a restare nudi.
E’ una vergogna! anche
perché abbiamo saputo che uno dei
guardiani é stato
ammazzato poco lontano da noi, per avere rubato
molti pezzi di ferro. -
- Giusto! - esclamò
Gavino e subito si pentì di quella
affermazione.
Seguiva Ducio con lo
sguardo, mentre raccontava del suo nuovo
lavoro. Ammirava, di
lui, la spontaneità, la sincerità, la fiducia nel
prossimo, l’amore verso
la famiglia, l’amicizia che gli andava
vieppiù dimostrando. Gli
dava, però, molto da pensare, già!
Nell’animo di Gavino
stava maturando una pianta che egli, senza
accorgersene, stava
alimentando con una linfa nuova, seppure, forse,
vecchia.
Sì, lui era un soldato
di Roma, ubbidiva agli ordini, ma non ne
eseguiva uno, che fosse
contrario all’etica umana, civile, di rispetto
verso tutti; non aveva
mai fatto pesare il suo compito di controllo;
non aveva mai voluto
torcere un capello a chichessia, anzi era
avvenuto e stava
avvenendo esattamente l’opposto.
Così, pensando, pareva
non turbarsi, invece........
Aveva, di recente, una
gran paura di incontrare contadini e pastori,
perché questi parlavano,
narravano della loro vita, del loro lavoro,
della loro religione,
quella cristiana, delle preghiere con le donne,
degli incontri che non
erano più clandestini, in casa di questo o di
quello. La voce, il
verbo di Cristo, aveva preso una dimensione sua,
incontrollata eppure
pericolosa.
Gavino credeva di
doversi dare delle risposte, poiché il suo pensiero
volgeva verso altre
sponde, che non erano certamente quelle di
Roma. Si chinò su se
stesso, graffiò con le mani la terra sottostante,
sfarinò le zolle secche,
buttò lontano piccoli pezzi di legna e sassi, ripulì
di tante erbacce quel
suolo antico e poco calpestato.
Alzò gli occhi verso il
cielo, in quel frangente terso e ne colse la
purità, il silenzio,
l’immensità.
La testa gli girava a
mo’ di mulinello e avrebbe continuato in
quella guisa, se
un’aquila dal volo radente non lo avesse distolto e
portato alla realtà.
- Gavino! svegliati! -
si disse e s’avviò al Palazzo.
Vi era animazione in
giro; gente che andava, che tornava, che lo
salutava e lo invitava,
anche.
Ma lui voleva sapere
cosa era successo in Corsica e quali
eventuali novità fossero
arrivate da Roma.
Entrò direttamente nella
grande sala, che trovò gremita di soldati
e anche di popolani
desiderosi di conoscere. Di lì a poco, apparve
anche Barbaro, seguito
da Giulio e da un codazzo di comandanti.
- Cari cittadini! -
esordì - La nostra missione in Corsica é stata
utile e necessaria. La
nostra presenza ha portato un lume di civiltà,
anche se parlare a
quelle popolazioni è stato assai difficile. Sono
pochi, a dir la verità,
ma lavorano tutto il giorno e non conoscono
regole. Vivono allo
stato brado, come le loro bestie, che sono tante.
E’ terra di conquista e
di approdi disordinati. Vi arriva gente di
tutte le genie, che si
arrogano altrettanti diritti, perché vanno ad
occupare un nuovo paese,
non dandosi, però, dei doveri. Noi,
rispettando la legge di
Roma, abbiamo cercato di insegnare loro
qualche rudimento di
vita civile. Speriamo di esserci riusciti! Però - si
animò ancora - abbiamo
fatto piazza pulita di molti cristiani, arrivati
anche colà a parlare di
questo nuovo salvatore dell’umanità.
Abbiamo graziato un
sacerdote africano e il suo compagno
d’avventura; si chiamavano
Gianuario e Proto ed hanno avuto il
coraggio di professarsi
pubblicamente seguaci di questa religione. Li
abbiamo puniti con dure
pene corporali e li abbiamo cacciati dalla
Corsica, mandandoli
all’esilio perenne qui, di fronte a questo mare
splendido, all’isola
dell’Asinara, dove ormai non se ne troveranno
più nemmeno le ossa! Noi
dobbiamo inculcare nella mente di tutti i
nostri concittadini che
le leggi dell’Imperatore Diocleziano vanno
eseguite e rispettate.
Solo così il popolo cresce e si civilizza, non con
le prediche, le parole
inutili e le promesse di un futuro fatuo, come
fanno questi pochi e
miserevoli cristiani! Rivolgo a voi, miei soldati,
quest’appello: uscite
dalle vostre abitazioni, controllate tutto e tutti,
soprattutto fuori dalla
cinta urbana. I cristiani devono essere
sconfitti, esiliati,
meglio se condannati a morte, così che il nostro
cammino nella civiltà
romana non abbia più a incontrare ostacoli.
- Buon lavoro e salute
ai vostri cari!
Finì quel sermone fra
l’esausto e l’esaltato, mentre i più vicini
l’applaudivano e
l’abbracciavano.
Gavino ascoltò, confuso,
in un angolo del grande salone, dove già
si preparava una lauta
libagione. Nonostante fosse in divisa, pochi lo
notarono e questo a lui
non dispiacque. Non salutò nemmeno chi
avrebbe dovuto; ne era
pieno abbastanza, per tutto quel che avea
udito.
Si liberò di quelle
presenze e tornò a casa.
* * *
La nave che trasportava
Gianuario e Proto ebbe molte difficoltà.
Partita due giorni dopo
che Barbaro li aveva condannati all’esilio
perenne, affrontò una
serie infinita di burrasche. Anche questa volta
si salvò per la perizia
dei suoi marinai, che erano dei veri lupi di
mare.
Infatti quella era un
bastimento più grande di altri, perché adibito
esclusivamente al
trasporto di merci per conto di potenti
commercianti. A bordo
erano solo mercenari, fuggitivi o
perseguitati, comunque
non degni di stare sulla terra ferma. A
comandarli era un
omaccione rossiccio, di età imprecisata, molto
esperto, ma molto
crudele.
Si chiamava Akaion ed
era stato un capo dei Vandali, in Africa.
Gianuario, accolto come
esiliato, si preoccupò subito, ricordando le
nefandezze di quelle
orde.
Tenne nascosta la sua
croce di legno e, col fido Proto, non proferì
mai parola, se non per
dire grazie del cibo e dell’acqua che, una volta
al giorno, qualcuno di
quella ciurma, porgeva loro.
Nessuno sapeva, ma
pregavano sempre, fino a che il sonno non li
avvolgeva, anche quando
quella nave veniva sbattuta e quasi
inghiottita dalla furia
degli elementi.
Arrivò, salva nei legni,
nell’ampio Golfo dell’Asinara, con i
marinai spossati e
indeboliti. Il suo comandante fece calare le ancore
in una rada, al riparo
dai venti, non lontana da Turris. Fece riposare
il suo equipaggio,
impartendo ordini perché i due esiliati fossero
tenuti sotto stretto
controllo.
A bordo, però, le cose
non andavano bene, poiché quei farabutti,
una volta inoperosi, si
trastullavano ad inscenare continue zuffe,
alcune delle quali
diventavano violente e sanguinarie. Tre o quattro
finivano sempre a mal
partito, tanto da posticipare, più volte, la
partenza.
Akaion, allora,
diventava una belva e si buttava, a suon di
bastonate, sopra quei
corpi, rendendo ancora più complicata la
ripresa del viaggio.
Alla terza notte, calma nel cielo stellato, ma
agitata in quella barca,
l’ Africano, forse ispirato, ma più temerario,
decise, con Proto, di
tagliare le corde di quella schiavitù.
Si calarono a poppa, di
soppiatto, nelle acque gelide e nuotarono
verso la riva, che, poi,
non era così lontana.
Toccarono terra, anzi
costoni rocciosi e piatti, dopo qualche ora.
Stramazzarono, stremati
ma felici, nella battigia, mentre il mare,
poco mosso, pareva
volesse accarezzare ancora le loro vesti, pesanti
e ingombranti. La luna
guardava col suo faccione bonario come
sempre e li seguiva.
Ma loro non vedevano,
non udivano, non parlavano né si
lamentavano. Dormirono
fino al giorno successivo e basta.
Poi, il sole vermiglio
del tramonto li trovò svegli e febbricitanti.
Sentivano il freddo
pungente sulla carne, mal protetta ormai da quei
talari ancora umidi;
avevano salvato una sporta contenente ancora
qualche pezzo di
pane.... salato. Avevano salvato, in primis, la loro
vita, perché questa non
doveva ancora smettere di essere vissuta.
Pregavano e
ringraziavano Dio per questo grande dono, mentre
già la notte occupava il
suo posto, in quella radura silente e misteriosa.
Gianuario e Proto,
comunque, erano sicuri di essere approdati
nelle vicinanze di
Turris e soltanto questa certezza dava loro tutta la
forza per resistere, per
aspettare, per essere grati a quell’Uomo che li
aveva presi sotto la sua
ala protettrice.
Non pensavano più ad
Akaion, ma quasi quasi lo ringraziavano
per averli depositati in
quella terra, ancor sconosciuta e accogliente.
Frastornati da mille
pensieri, furono raggiunti dal sonno, che li ebbe
con sé fino all’alba
successiva.
Il risveglio fu come se
si fosse aperta una finestra in un paradiso
terrestre. Erano
circondati da cinghiali, asini, buoi, uccelli variopinti,
grandi e piccoli, che
incrociavano voli sopra i loro corpi, da cavalli al
pascolo, da maestosi
cervi e mufloni.
Acuirono la vista, per
vedere se nei dintorni vi fossero figure
umane, a cui rivolgere
attenzioni e domande; non videro alcuno, ma
decisero ugualmente di
muoversi in direzione delle ultime case della
periferia di Turris. Si
inoltrarono in una fitta boscaglia, attraversata
mirabilmente da mille
rigagnoli d’acqua e ad essi sembrava di non
essere più soli, tanto
quegli scroscii erano e creavano qualcosa di
piacevole, una compagnia
inaspettata e gentile per tanto tempo.
E arrivarono a cielo
aperto, perdendo l’orientamento e
trovandosi, un’altra
volta, di fronte al mare, l’arenile lungo e bianco
di Marinella, macchiato
di rocce sedimentarie, imbiancate da stormi
di gabbiani in riposo.
Osservavano quello
spettacolo e, camminando, non volevano
staccarsene, tanto ne
venivano presi. Attraversarono il Ponte
Romano dalle sette
arcate, mentre il grande fiume, con fragore, si
tuffava nelle acque del
Golfo.
Ciò che a mala pena li
copriva, era andato asciugandosi, un pò col
vento, un pò col sole.
Ma si era svegliata la fame sotto forma di fitte
allo stomaco e poca,
meno resistenza alla fatica.
Di tanto in tanto, i
loro sguardi si incrociavano e di nuovo si
allontanavano, alla
ricerca di una presenza umana.
Videro, a distanza, una
candida barca, a metà tra la risacca e la
spiaggia, dove due
pescatori si muovevano. Si avvicinarono e
scoprirono che quei due
stavano consumando un frugale pasto.
- Salve! - disse a bassa
voce Gianuario. -
- Oh! Buongiorno! Chi
siete? E da dove venite? -
- Siamo viandanti e
veniamo da molto lontano, da sud - replicò
Gianuario, segnando con
il braccio la loro provenienza.
- Fateci compagnia! -
aggiunse uno dei pescatori.
- Ma come facciamo? -
replicò l’altro - abbiamo solo pane
raffermo e quattro
pesci! -
- E’ più che
sufficiente! - azzardò Proto timidamente. Siamo
abituati ai lunghi
digiuni. Grazie per la vostra amicizia e
disponibilità! -
Ora, i quattro stavano
uno di fronte all’altro e sembrava si
conoscessero da chissà
quanto. Parlavano del mare, dei suoi frutti,
delle sue tempeste.
- Vedete quella grande
isola, là lontana? - prese a dire Ponziano -
Quella é l’Asinara, dove
é molto difficile, se non impossibile,
arrivare, per via delle
sue coste, molto frastagliate, con rocce
semisommerse, che
nessuno conosce e dove tante navi vanno a
sfracellarsi, anche col
mare calmo. In città, abbiamo sentito che
Barbaro vi ha fatto
confinare per sempre due sacerdoti cristiani,
colpevoli di essersi
dichiarati seguaci di Gesù Cristo! -
- Chi é questo Barbaro?
- domandò all’improvviso Gianuario.
- E’ da tempo il
Governatore della Sardegna e della Corsica.
Rappresenta l’Imperatore
Diocleziano e quello che dice lui diventa
legge. Abita a Turris,
nel palazzo delle terme, vicino al ponte. E’
protetto dai suoi
soldati; é uomo, dicono, cattivo, che combatte e
odia, in particolare,
chi appartiene alla religione cristiana. In città ci
sono molti cristiani, ma
vivono tutti in periferia o nelle campagne,
per paura di essere
scoperti. -
- E voi chi siete? -
incalzò l’Africano.
- Siamo fratelli e
viviamo come possiamo. I nostri genitori sono
morti, anzi, no, sono
stati ammazzati!
- Come? Ammazzati!? -
- Sì e non ci hanno
detto niente! Una mattina di questa
primavera, hanno portato
i loro corpi, straziati, a casa. Erano stati
frustati a sangue,
portavano i segni della violenza dappertutto, e mio
padre aveva il cranio
diviso a metà. Ora noi abbiamo soltanto questa
piccola barca; a volte
riusciamo a fare una buona pescata e, allora, in
paese vendiamo il frutto
della nostra giornata, e così é e sarà! -
Gianuario non interruppe
quel breve racconto, perché capiva
quanto dolore si era
accumulato nell’animo di quei due fratelli e capì
anche che erano
cristiani e tali sarebbero rimasti.
Proto ringraziò ancora e
si drizzò per andar via.
- Dove andate adesso? -
domandarono.
- Verso la città, per
conoscere e trovare nuovi amici, come voi! -
rispose Gianuario.
- Voi venite con noi,
nella nostra casa, che é dalle parti della
miniera! Se vi vedono
vestiti in quella maniera, i soldati penseranno
subito che siete
mendicanti, che non lavorate, che non meritate di
vivere, come i
cristiani! Ma voi - e finì - siete cristiani? -
- Sì! Dal profondo del
nostro cuore! - annuirono e si
incamminarono.
Un alone di felicità
intensa e intima avvolse i quattro e un sorriso
di gioia provò ad
apparire sui loro volti scuri.
Gianuario ringraziò a
modo suo la Provvidenza, toccò la sua
croce nascosta, che gli
diede nuova energia e speranza.
Giunsero, passando per
la periferia, alla casa di Ponziano e
Gregorio, che aveva, di fronte,
un orticello con alberi da frutto.
Era molto modesta quella
casa, ma vi erano tanti spazi da poter
accogliere quattro
persone. C’erano evidenti i segni della loro
religione e due
tavolette di legno, oblunghe, con sù incisi i nomi dei
genitori estinti.
Gianuario e Proto si
accorsero di vivere in un altra dimensione
umana, pur riflettendo
seriamente che erano andati a finire nel paese
dove regnava quel
signore già da loro conosciuto, e come!
Non sapendo andar per
mare, il giorno successivo, di buona lena,
armati di vanga e zappa,
incominciarono a smuovere la dura terra di
quell’orto. Coi due
fratelli si erano divise le incombenze; chi
lavorava da una parte,
chi dall’altra.
Li pervase una tale
tranquillità d’animo che fece loro pensare ad
una benedizione divina.
Pregavano in assoluta
libertà e talvolta erano anche in quattro.
* * *
Gavino passò alcuni
giorni seguendo Ducio e tutti quelli come lui,
che lavoravano alla
miniera di ferro. Conobbe molti suoi compagni e
toccò, con mano, quanto
duro ed ingrato fosse quel lavoro.
Coloro che li
controllavano non erano soldati, ma strani
personaggi, davvero
sconosciuti, proprio come aveva detto Ducio
stesso.
Non si sapeva da dove
arrivassero e da chi fossero comandati.
Erano violenti e se
appena qualcuno osava fermarsi, veniva
scudisciato e costretto
a subire nuove angherie. Si rivoltarono anche
a Gavino, allorquando
questi intervenne per togliere dalle loro
grinfie due incauti
operai che, forse, perdevano troppo tempo in
chiacchere.
Li fermò soltanto la
spada minacciosa e protesa verso il petto.
Quella miniera,
tuttavia, non era una fucina di violenze; era piuttosto
un concentramento di
braccia umane, atte a rubare, dalle viscere
della terra, quel
prezioso minerale che, comunque, sarebbe servito
alla crescita della stessa
Roma e dei popoli da essa conquistati.
Gavino, queste
considerazioni le faceva, ma non approvava la
maniera con cui quel
lavoro doveva dare così tanti frutti.
Non voleva la violenza,
non voleva la sopraffazione; il debole non
doveva soccombere di fronte
al forte. Lui amava il rispetto,
l’uguaglianza e molto
altro che si teneva dentro, ma solo per il fatto
che era un soldato
romano. Non poteva rinnegare il suo mandato,
non poteva spogliarsi di
quella divisa. Eppoi, a chi l’avrebbe
esternato? E cosa avrebbe
fatto? Era lontano dai suoi genitori, dei
quali, oltretutto, non
aveva più avuto notizie.
Alla sera, dopo, era uso
rifugiarsi in casa, ma da solo era raro che
vi rimanesse. I vicini
lo rispettavano e lo salutavano, avendo lui, nel
tempo, dato le stesse
dimostrazioni, di stima e amicizia.
Gli unici che,
quotidianamente, frequentava erano Ducio e la sua
famiglia. Trascorreva
perfino momenti di allegria, dovuti alla
presenza di Silvia e
Simplicio, giovani più di lui, e perciò portati al
dialogo, agli scherzi,
al disincanto, in contrasto con gli adulti e con
tutto quello che ogni
giorno accadeva.
In una di quelle serate
invernali, Ducio arrivò a casa, trovandovi
Gavino con i suoi
familiari, che parlavano di amici e di giochi, ma
anche di speranze in un
avvenire migliore.
- E’ accaduto qualcosa
di nuovo? - domandò Gavino.
- E’ tutto vecchio! -
ammise sconsolato Ducio.
- Come vecchio? -
- Gli é che quello che
succedeva prima, succede ancora e di
peggio! -
- Cosa vuoi dire? -
incalzò Gavino.
- Voglio dire che ora le
persecuzioni, anche personali, sono un
dato di fatto; sono
diventati atti ufficiali e pubblici e pare la
popolazione voglia
ribellarsi. -
- E tu come fai a sapere
queste cose? -
- Eh! purtroppo le ho
viste ed anch’io ho rischiato. Le guardie del
governatore fanno delle
vere e proprie spedizioni punitive, sembra
che vi siano
indirizzati, perché dopo avviene l’indicibile, in
particolare di notte e
per la notte intera..Infatti non riuscivo a
spiegarrni come mai, di
buon mattino, se non all’alba, mi imbattessi
spesso in gruppi di
fuggiaschi, che correvano verso la campagna,
sotto i boschi,
senz’altro per nascondersi e non farsi prendere.
Qualcuno si mischiava a
noi, verso la miniera, facendo finta di
andare al lavoro! -
- Ma questo, quando? -
l’interruppe Gavino.
- Ma anche stamane,
allorquando vennero presi e messi subito in
catene, due sconosciuti
che si dichiaravano inviati di non so quale
signore!
- Signore?! E perché
mai? -
- Non sò, non ho capito
quello che dicevano, in mezzo ad una
baraonda improvvisa e
chiassosa! -
- E dove li han
trascinati? -
- Secondo me, li han
portati al sicuro, in qualche grotta, vicino al
Palazzo, per essere
processati! -
Gavino si ritirò a casa
sua, con forti dubbi ed inquietitudini.
Il giorno dopo non
riuscì a farsi ricevere da Barbaro, a causa della
sua salute. Girò in
lungo e in largo e non vide altri soldati o guardie
in atteggiamenti
repressivi o violenti. Seppe, sì, da persone
conosciute, dell’arrivo
in città, di due viandanti, assai tranquilli, e ciò
lo fece riandare col
pensiero a Ducio.
Ritornò a Palazzo e
incontrò Giulio con Gallena.
I due sorrisero, quasi a
sfiorarsi.
- Cosa ti porta qui,
Gavino? - gli si rivolse Giulio. - Vuoi sapere
degli ultimi
avvenimenti? -
- Si! ma mi auguro che
non ce ne siano! -
- Invece ci sono e come!
Domani, prima dell’ora del vespro,
saranno processati due
viandanti. Barbaro è felice di questo processo,
perché, dopo, ci dovrà
comunicare ulteriori grandi notizie! -
- Ma chi sono questi
viandanti? -
- Lo sapremo domani! -
- Ci devi essere anche
tu, é molto importante! -
* * *
Il grande salone del
Palazzo aveva il solito aspetto, di opulenza, di
grandiosità e anche di
solennità, se non vi accadessero tutte quelle
iniquità e ignominie,
pensava Gavino.
Faceva abbastanza
freddo, per cui tutti gli invitati al processo,
erano già all’interno,
al riparo e al caldo che le torce brucianti
emanavano. Gavino entrò
per ultimo e occupò un angolo molto
lontano dal proscenio,
dove immaginava si stesse per svolgere la già
conosciuta adunanza.
V’erano molte guardie e soldati armati, altri
sconosciuti e tanta
gente del popolo, che voleva assistere e sentire.
Alcuni centurioni,
sfavillanti a orgogliosi nella loro divisa forti e
pronti a circondare e
difendere il loro piccolo imperatore.
Pareva di dover
assistere ad una bella rappresentazione teatrale, e
lui, in cuor suo, se lo
augurava. Un brusio si spandeva, in quell’
attesa piena di
curiosità e paura. Non era apparso il lungo tavolo con
i famosi aculei
incurvati e questo, a Gavino, fece pensare a qualcosa
di meno crudele, senza
violenza.
Finalmente apparve
Barbaro, bello intunicato, ma poco austero,
come sempre. S’assise
allo stesso modo e, con aria triste ma decisa, si
rivolse quasi alla
platea:
- Dove sono? - chiese
gracchiante.
I presenti si voltarono,
chi da una parte, chi dall’altra, alla ricerca
degli innominati, quasi
lo sapessero o li conoscessero.
Con quella domanda
maligna, il governatore aveva ottenuto
l’effetto voluto. Creare
il dubbio subdolo e farlo annidare, fino a che
uno non si fidava
dell’altro, anche se vicino e conosciuto.
- Non sono in mezzo a
voi, amici miei! - riprese Barbaro, pacato.
E gli dei mai non
vogliano che gente come questa s’annidi fra di voi
e le vostre famiglie.
Sono soltanto due e ringrazio le mie guardie, che
li hanno trovati! Sono
quanto di peggio questa società possa
esprimere; sono due
delinquenti, due imbroglioni, due ladri, due
persone non degne della
nostra civiltà, sono due cristiani, che io
conosco molto bene, e ai
quali voglio dare una lezione severa davanti
al popolo! -
Quel brusio
disinteressato di prima, diventò indefinito; si
sentivano dei sibili,
delle frasi smozzate, di stupore frammisto a
timore.
Qualcuno fece cenno di
andar via, ma ne fu impedito, Un cordone
umano, fatto di presenze
poco umane, circondava il perimetro di
quella sala e Gavino
capì che vi erano costretti.
Chi era entrato, non
poteva uscire, se non alla fine di quel
processo.
- Sapete chi sono e
qual’é la loro colpa? Sono due sacerdoti
cristiani, si chiamano
Gianuario e Proto, e mi hanno tradito! Ma non
solo; hanno violato le
leggi e sono sfuggiti alla mia condanna, non
qui, a Turris, bensì in
Corsica, durante la mia recente permanenza.
Erano arrivati colà,
forse dall’ Africa, ed io li avevo accolti a braccia
aperte.
Li avevo nominati miei
ambasciatori, in quel territorio, proprio
perché, soprattutto
Gianuario, mi era sembrato uomo di grande
cultura, di grande
comunicazione, in mezzo alla plebe ignorante.
Ho dato loro l’intera
fiducia, che hanno calpestato e offeso.
In quell’isola abbiamo
scoperto sotto quali sembianze tenevano
l’intelligenza, la
bonomia, la sottomissione stessa nei nostri confronti.
Agivano in piena falsità
e malafede, andando a pregare e convincere
quei pochi pastori
corsicani a credere in quella religione di quel
Gesù, che tante menti
sane sta distruggendo! Ho dato loro tutte le
possibilità per
redimersi; ho offerto loro dignità e ricchezza, ma mi
hanno negato tutto! Dopo
averli arrestati e frustati, li ho fatti
imbarcare su una nave di
mercenari, perché li trasportasse e li
lasciasse in esilio
perenne all’ Asinara, che voi conoscete! Secondo il
nostro pensiero, in
quell’isola solitaria, non vive né sopravvive
alcuno, abitata com’é da
animali feroci e sconosciuti! Invece, eccoli
qua! Sono riusciti ad
abbandonare quella nave, approdando nelle
sabbie di Turris! E
questa é anche la loro confessione! -
- Ma dove sono? -
ribatté Barbaro ormai accaldato e vicino allo
sproloquio.
- Siamo qui! E ordina ai
tuoi soldati di togliere dai nostri corpi
queste catene. Non
servono! non dobbiamo e non vogliamo fuggire!
Anzi, ringraziamo il
nostro Signore Gesù Cristo, che ci ha portato al
tuo cospetto! Noi
abbiamo tradito la tua legge pagana e dobbiamo
essere processati,
davanti a te, davanti al popolo, di cui anche noi
facciamo parte! - Era
l’esordio di Gianuario, fiero nella sua ricchezza,
nella sua povertà.
Gavino, profondamente
stupito e attento, si era avvicinato di
molto a quella scena
madre e ne scrutava ogni movimento,
memorizzando ogni
parola.
Barbaro, ricco della sua
ignoranza, sperduto mentalmente,
implorante qualche sua
divinità, per abbreviare quello che lui stesso
aveva voluto e che
pareva non finire, invitò Gianuario e Proto a
presentarsi più visibili
a quella platea, in modo che gli astanti
vedessero meglio i loro
volti, imbruttiti ed emaciati.
- Barbaro! - riprese a
dire pacatamente Gianuario - tu che vuoi
comandare questa gente,
con le leggi di Roma, del tuo Imperatore; tu
che, con la forza, vuoi
sottomettere questi uomini, tu che vuoi
imporre la tua religione
pagana, che adora tutti e nessuno, che crede
a mille divinità, che ti
soggiogano e ti rendono simile ad un fuscello
d’erba sbattuto dal
vento, tu, Barbaro, non riuscirai mai a
impadronirti dei nostri
cuori! Essi appartengono, da sempre, al
nostro Dio, che ci ha
dato la forza di essere vivi, forti davanti a te, e
da te attendiamo la
condanna. Sappi che noi abbiamo dedicato la
nostra vita a soccorrere
i deboli, a perdonare gli assassini, ad amare il
prossimo, a pregare
perché il nostro Gesù ci accolga tutti nel suo
grembo, indifferentemente,
dal ricco al povero! Sappi che noi
perdoneremo anche te,
per quello che comunque attuerai nei nostri
confronti, ovvero la
morte, che noi aspettiamo! Sappiamo di morire
con l’animo sereno,
degni di Colui che ci ha illuminato, nel nostro
peregrinare dall’ Africa
alla Corsica, fino alla tua Turris. Ora
pregheremo anche per te
e tu, dopo, ci ammazzerai! Lode e grazia a
Gesù, nostro protettore!
-
La difesa di Gianuario
(ma non voleva difendersi) fu come un
fendente di spada,
inflitto in un corpo che non ha sangue.
Quella piccola folla
zittì se stessa, in un respiro trattenuto, per
paura o ammirazione non
si sà.
Non si mosse alcuno, ma
Barbaro non si intenerì e aggredì quei
due con le braccia
alzate, in segno di minaccia.
- Non siete degni di
calpestare questa terra, invece, ecco cosa vi
dico! imbroglioni,
delinquenti, privi di qualsiasi forma che vi possa
far rassomigliare a noi
uomini! Sarete spazzati via come vermi, sarete
polvere che nessuno
vedrà, e la terra si salverà dalle vostre orme!
Soldati! portate via
questi due cialtroni, incatenateli al collo e ai piedi
e lasciateli in quella
grotta chiusa, in attesa della condanna! -
- Gavino! Dov’é il
nostro tribuno Gavino? - urlò ancora.
Trasalì, Gavino,
sentendo il suo nome, alto, in quel baluginio di
voci e di luci. Si
accostò e ascoltò quel che il capo voleva dirgli:
- Gavino, conoscendo la
tua rettitudine e la tua fedeltà, ti affido i
due prigionieri. Tu ne
sarai il custode fino a quando non sarà deciso
il giorno del loro
sacrificio. Sii forte, perché questa é la volta della tua
stella! Fatti onore e
Roma sara orgogliosa di te! Va! e ave fratello! -
Il processo era finito e
molti avevano guadagnato l’uscita.
Gavino si sentì
sgretolare dentro; fumi di calore investirono il suo
cervello e, a momenti,
credeva di precipitare in quell’abisso infinito
di sentimenti confusi,
da cui gli sembrava impossibile risalire.
Con coraggio, rifiutò di
pensare. Aveva ricevuto un ordine, molto
pesante, e lui vi si
doveva attenere, ad ogni costo.
* * *
I due condannati furono
portati via, incatenati, da ben dieci
energumeni, non soldati
o guardie.
Il percorso non fu
breve, fino ad oltre Balai, dove il mare e il
vento avevano scavato
profonde caverne, che si prestavano, in
natura, alla bisogna.
Li rinchiusero negli
antri più interni e neppure la luce del giorno
riusciva a raggiungerli.
Li abbandonarono al loro destino, mentre
quelli si alternavano,
in gruppi di cinque, di giorno e di notte, nella
vigilanza stretta.
Gianuario e Proto,
accucciati sulle ginocchia, ebbero la forza di
dire grazie agli
”accompagnatori”, che sembravano ammansiti dallo
sguardo e dalla
rassegnazione di quei due.
Non fecero altro che
distendersi sopra la nuda terra e pregare.
Furono rapiti dal sonno
ristoratore.
All’ alba, arrivò
Gavino, che fu fermato dai cinque guardiani.
- E tu chi sei? Cosa
vuoi? - intimarono.
- Io sono Gavino,
tribuno romano, inviato da Barbaro! Devo
occuparmi dei
prigionieri! Dove sono?
- Vai fino in fondo,
sono là, anche se non li vedrai. -
- Grazie! - e li
raggiunse in una completa oscurità.
- Gianuario, Proto, dove
siete?
- Siamo qui, forse non
ci vedi, ma sentirari la nostra voce. - E tu
chi sei?
- Sono Gavino! - e si
fermò, sforzandosi di vedere qualcuno. Si
spostò sulla sua
sinistra, toccò la parete calcarea ed umida, ed un
fascio tenue,
inaspettato, di luce giallastra, proiettò le due figure.
D’istinto, Gavino
sollevò il capo e notò, lontano da loro, l’origine
di quella sorgente
luminosa; impercettibile, ma a quell’ora il sole
riusciva a trapassare
alcune striature profonde della terra, mandando
piccoli bagliori, che
facevano pensare perfino al miracolo.
Gianuario ci credette.
- Ora ti vedo, ma perché
sei venuto? –
- È Barbaro che lo
vuole, perché devo accertarmi che siate in vita,
fino a che lui non
emanerà la sua sentenza.
- La nostra condanna è
già stata pronunciata! Aspettiamo di
morire sereni, in pace
con Gesù Cristo, che ci darà respiro e forza,
fino al momento supremo.
Noi preghiamo anche per te, che sei
soldato romano,
ambasciatore fedele del tuo padrone. -
- Io non ho padrone, non
sono un cane! E non sono nemmeno
ambasciatore. Sono un
uomo come voi e vorrei sentire la vostra
storia! -
- Come?!, vuoi conoscere
la nostra storia? - si meravigliò, e non
poco, Gianuario - Tu
sai, tu hai sentito il processo, la sicuméra del
tuo re, le sue
intenzioni, la sua infamia. Tu non puoi, soldato
romano, voler sapere
delle nostre peregrinazioni, delle nostre
sofferenze, del nostro
credo nella verità cristiana che portiamo nei
nostri cuori. Abbiamo
rinunciato a tutti i doni del vivere terreno, per
dedicarci alla
predicazione del verbo del nostro Gesù. Siamo stati
ostacolati e
perseguitati, quasi sempre, dai potenti, dai pagani, dagli
atei, ora da questo
imperatore di Roma, che vuole la distruzione e la
eliminazione fisica di
tutti i cristiani. Ma il popolo, la gente umile,
pacifica e laboriosa,
crede e ascolta, anche di nascosto, la nostra
parola, che é parola di
Gesù. Tu, Gavino, non crederai, ma la pace
interiore, la serenità,
la felicità, si raggiungono con la preghiera in
Cristo; perché Lui ci libererà
da questi oppressori, dalle persecuzioni,
che sono in atto da
tanti anni, dall’ odio che pervade gli uni e li
contrappone, con la
forza, agli altri. -
- Ma tu, anche tu, nutri
questi sentimenti barbari nei nostri
confronti? - chiese
all’improvviso Gianuario.
Gavino tacque, prese del
tempo ed eludendo quella domanda
terribile, domandò
distrattamente:
- Desidero sentire tutta
la vostra storia!
Vi ascolto, perché
nessun altro ci può ascoltare. -
I tre si vedevano a mala
pena, in quella penombra passeggera, ma
quel colloquio lo
desideravano; i due come medicina, per la loro
attesa, l’altro per
conoscenza, per accrescimento del suo bagaglio
umano e giovanile.
Ma era proprio così?
Gavino, a differenza di
altre volte, sentiva intorno un alone di
libertà interiore;
nessun cittadino di Turris lo seguiva o lo ascoltava.
Quel silenzio, voluto e
creato dalla natura, lo incoraggiava e gli dava
forza necessaria per
liberare alcuni propositi, per provare a vincere,
forse, quella battaglia
intima che scoppiava in lui, quando era di
fronte all’ingiustizia,
alla sopraffazione, e non voleva. Se ne rendeva
conto e non si
biasimava, tant’é che aveva invitato quei due a
continuare.
Gianuario, perciò, non
si fece pregare, nonostante quel soldato
non avesse ancora
risposto a quella sua precisa domanda. Si alzò e
camminò verso quella
luce fioca, quasi cercasse una via d’uscita.
Prese a parlare
serenamente, Proto era attento e triste.
Gavino non osava
interromperlo, ma lo fece quando raccontò di
Barbaro in Corsica.
- Perché lo chiamavano
Re Barbaro? -
- Forse, quel titolo, se
l’era dato lui, forse i suoi capitani, visto che
in quell’isola erano in
pochi e v’erano pochissimi abitanti! -
- Qui, a Turris, nessuno
lo chiama re ! - disse Gavino. - Lui é
governatore, presiede
alle due isole e fa semplicemente eseguire gli
ordini scritti
dall’Imperatore Diocleziano. E li fà eseguire anche
troppo bene! Anch’io,
purtroppo, ne ho visti tanti di processi e
condanne.
- Vi dico: Non voglio
vedere la vostra! Non voglio esserne
testimone, perché ho
assistito a troppe ingiustizie in questa terra, pur
bella e accogliente! -
- Ma allora tu stai
ascoltando quello che noi andiamo dicendo?
Ma allora tu vuoi
salvare le nostre anime, se non i corpi?! -
La voce di Gianuario era
diventata incisiva e decisa; non chiedeva
salvezza, voleva solo
comunicare il suo stato d’animo, che era uguale
a quello di prima, di
sempre. Con quella domanda, semmai, era sua
volontà coinvolgere,
ancora segretamente, un altro individuo, non
importava se ateo o
cristiano. Gavino, questo lo capì e ancora, dentro
se stesso, vide un’altra
luce, ben diversa da quella che il sole riusciva
a far penetrare in
quegli angoli angusti.
Capì, ma fu anche
capito. La parola, in quel momento, non
serviva; c’era lo
spirito che li accumunava, ma non se ne
avvedevano.
I due condannati
aspettavano la morte; Gavino, inconsciamente, li
proteggeva, con l’umano
desiderio di non far male, seppure
indossava quella divisa.
- Ma perché non vuoi
vedere la nostra condanna? - riprese
Gianuario.
Dopo un po’ di tempo,
Gavino riuscì a rispondere:
- Non voglio, e mai lo
farò! Per i miei principi, per il rispetto che
ho degli altri, perché
vengo ripagato da tutti. Io, seppur soldato di
Roma, non ho mai fatto
del male ad alcuno, non ho usato la mia
spada per offendere,
ferire o ammazzare. Non ho usato arroganza e
odio, in occasione,
sebbene mi si imponesse di farlo. Ho gli occhi ma
non vedo, ho l’udito, ma
non sento di tutto quello che è accaduto
intorno a me. Gli
uomini, per vivere hanno bisogno di leggi, di
regole comuni, per
essere tutti eguali. Ci sono periodi, come questo,
in cui le leggi sono
emanazione di editti, di imposizioni, dettate dalla
mente di un uomo solo,
potente e prepotente, in assoluto disprezzo,
non tanto dell’uomo
stesso, quanto della vita umana. E’ questa che
per me e importante, pur
in quelle regole di civiltà. Quella vita,
quello spazio di tempo,
breve o lungo, deve essere di tutti, chiunque
esso sia, ricco o
povero, e và vissuta. Non deve essere calpestata e
annullata; al contrario,
esaltata nei suoi valori, nella collettività,
perché nessuno si senta
sottomesso o inferiore ad altro. Questo
insegnamento me l’ han
dato i miei genitori e ne vado fiero.
Io, sappiate, non vi
torcerò un dito. Vi aiuterò e ascolterò ancora
questo vostro
testamento, perché per me é e sarà parola di uomini
che han sofferto e
lottato per un ideale. Vi ammiro per la forza che
avete e che mi state
donando! Ed ora, pregate pure, se volete! Io
torno in città e
attenderò ordini, se mi arriveranno! A presto! -
Gianuario e Proto videro
quell’ ombra che si allontanava.
Il sole, ormai, aveva
oltrepassato quella striscia di terra ricurva.
Il buio li aveva
nuovamente avvolti, ma non se ne lamentavano.
Aspettavano e pregavano.
* * *
In città si faceva
grande cronaca del processo e della dura condanna
inflitta. Sempre a bassa
voce e non pubblicamente, Gavino ascoltò,
anche involontariamente,
molti commenti su quell’episodio. Erano
negativi, visto che
malumori già serpeggiavano tra la gente, e per le
improvvise perquisizioni
e per gli arresti e per la violenza che veniva
usata.
Si trovò al centro di
questa discussione, anche da Ducio, a casa, e
a lui piacque parlarne.
Ducio ricordava i due
condannati solo di vista, mentre Gavino li
aveva ormai conosciuti e
bene.
- Per ordine di Barbaro,
sarò custode di quei due fino alla
decisione della condanna
a morte - disse Gavino - Dovrò sorvegliare
che sopravvivano ed
essere testimone di un altra tragedia! -
- Non ti invidio, caro
Gavino! Io andrò sempre alla miniera e non
vorrò ascoltare di
nulla, di questi fatti, perché io ho già sofferto; non
voglio che la mia
famiglia partecipi a questi eventi, neppure e
soltanto a sentirli
nominare. Certo, se ne parlerà, saranno loro stessi,
gli assassini, a darne
notizia, poiché di questo vanno orgogliosi! La
legge di Roma impone e
dispone, attorno si crea la storia, la civiltà o
l’inciviltà, mentre il
popolo subisce e non può esprimere il suo
pensiero. Ora incomincio
a capirti, Gavino, anche se, in molteplici
occasioni, mi avevi
dimostrato qual’era l’essenza vera della tua vita.
Sono onorato e felice
della tua amicizia! Non oso darti consigli,
perché sei saggio; non
oso accompagnarti, perché vedo che sei in
buona compagnia. Hai te,
la tua forza, la tua intelligenza e, forse, sai
anche chi, tutto questo,
te lo stà dando. Vah! so che farai il tuo
dovere e non avrai a
pentirti!
Gavino non s’aspettava,
sinceramente, questa specie di sfogo da
parte di Ducio. Ne
rimase quasi affascinato, sapendo quanto dura e
faticosa fosse
l’esistenza di quella famiglia.
Strinse la mano a quel
suo amico, a suggellare quel che avea
udito, di parole e di
pensieri sempre condivisi, ma mai apertamente
ricambiati.
Si salutarono e si
lasciarono.
L’imprigionamento
crudele dei due cristiani, la feroce
determinazione di
Barbaro, nel disporre quella condanna, l’assenso e
la fedeltà di quei
soldati e comandanti, aveva prodotto in Gavino
una profonda e finora
sconosciuta repulsione dei propri
intendimenti.
Repulsione, pensava,
anche verso se stesso, in quanto uomo,
essere umano, così come
lui, Gavino, aveva sempre creduto. E andò
a ritroso nel tempo e
incominciò a giudicare il suo passato.
Aveva visto di tutto,
degli avvenimenti più duri, le crudeltà, le
ingiustizie, le
persecuzioni e, soprattutto, la mancanza di rispetto
della vita, dono
supremo. E lui continuava a chiedersi: cosa aveva
fatto?
- Nulla! o quasi nulla!
- fu la risposta.
Ne rimase meravigliato e
sorpreso, in senso negativo, però.
Promise, in quello stato
d’animo, di ergere una diga intorno a se,
alta, impenetrabile,
forte si dà poter respingere ogni azione contraria
a quei principi che lui
tanto amava e che, fino ad adesso, non era
riuscito a mettere in
pratica, al momento del bisogno.
Vagò, con la mente
stanca, in quel vasto territorio di Turris e
rivide l’evoluzione di
vita di quei contadini, di quei pastori, di quei
pescatori.
Li rivide come fratelli,
facenti parte di una stessa famiglia grande
e lui vi si mischiò,
rispettoso e umile. Sembrava contento di quella
virtualità e, quasi
quasi, andava assolvendosi per tutto quello che
non aveva fatto, ma che
avrebbe voluto.
La sua volontà, che non
poteva essere sua, era guidata; riceveva
ordini da altri, era
soggiogata, perché aveva scelto quella via, perché
era un soldato di Roma e
da questa dipendeva.
Il contrario non poteva
avvenire, perché lui era un militare e, in
quanto tale, aveva
giurato fedeltà alla sua Patria.
Il tradimento, in
origine, non faceva parte dei suoi sentimenti,
tanto meno, la fuga e
l’abbandono di quella divisa. Divisa che
copriva, ora, un corpo
pieno, stracolmo di contraddizioni, maturate
piano piano, nel dovere,
nell’umanità e nella sofferenza, propria e
altrui.
Questo esame, Gavino, lo
stava affrontando, ma gli argomenti
erano ancora poco
chiari. Aveva di fronte a sé un campo sterminato,
dove una battaglia era
pronta ad esplodere. Lui, però, non aveva
ancora scelto l’arma con
cui combattere e se ne rammaricava.
Ma doveva combattere, lo
sapeva, e ogni giorno che passava, la
sua voce, quella di
dentro, glielo chiedeva e lo spronava.
Ecco, era in questi
momenti, che sentiva la mancanza dei suoi
genitori! Forse di più,
perché il suolo, la terra, le strade di Roma, la
sua città, gli mancavano
e rendevano inutile ogni suo pensamento. Si
lasciava prendere da
queste emozioni forti, da questi travagli, che
lasciavano maturare in
lui più generosità, una più fulgida
intelligenza, che
finivano per renderlo più propenso a percorrere
quel cammino accidentato
seppur segnato. Ma lui non lo sapeva, per
tutti quei motivi
sopradescritti.
Non aveva raggiunto
quella cima, pur avendone percorso i mille
sentieri. Doveva
accadere un miracolo, tanti miracoli, di cui lui non
sapeva proprio niente,
anche se quella strada stava percorrendo.
* * *
Il tempo passava e la
data della sentenza di morte, per Gianuario e
Proto, si avvicinava.
Gavino, ogni giorno, si
recava in quella grotta e lo faceva
volentieri, perché
parlava, ovvero, colloquiava con quei due,
ascoltandone la storia
negli intimi significati, scoprendo nuove
sensazioni umane, a cui
lui prestava attenzione e memoria.
Non era più andato a
Palazzo e di quel che accadeva veniva
informato alla sera, dai
figli di Ducio, che, ormai, l’avevano adottato.
Non poteva, di certo,
avere il brio e lo spirito dei due ragazzi; ma,
a fine giornata, parlare
di tanti altri problemi, era, per lui, un
toccasana, una medicina
leggera, per lenire non tanto i dolori fisici,
che non c’erano, quanto
quelli morali e del pensiero.
Perciò Gavino credeva in
quegli incontri, in quelle conversazioni,
più o meno importanti,
che coinvolgevano tutta la famiglia. I giovani
si arrichivano di
esperienza, di giudizi, che, altrimenti, non
sarebbero emersi. Si
riteneva fortunato per avere fatto conoscenza e
amicizia con Ducio e i
suoi.
Quella mattina di fine
settembre, in un’alba umida e uggiosa,
Gavino ricevette un
messaggero di Barbaro, che lo invitava a recarsi
da lui.
Dopo la visita ai due
prigionieri, si recò a Palazzo e conferì subito
col governatore:
- Salve! Gavino, i due
colpevoli come stanno? -
- Stanno bene, Barbaro!
Quei due hanno un coraggio da leoni!
Certo, non stanno bene! Però
attendono la tua condanna come una
liberazione. Non
desiderano altro! -
- Questi cristiani non
li capisco proprio! - disse Barbaro -
Vogliono vivere,
vogliono combattere, ma al primo fosso che si apre
sotto i loro piedi,
cedono e non si rialzano più! Ma che razza di
uomini sono questi? -
- Sono uomini che non
usano armi, perché il loro scopo
principale é la vita.
Usano la parola per conquistare la gente, pur
sapendo che sono
osteggiati e poco creduti! - provò a dire Gavino.
Barbaro lo stava
osservando di sottecchi, ma continuò.
- Tante persone, in
mezzo a noi, scelgono un genere di vita. Loro
hanno scelto quella,
sbagliata secondo la legge, ed ora ne stanno
pagando le conseguenze.
-
- Bene, bene, Gavino! Mi
sembra che sia giunto il momento di
celebrare questo
processo. La sua risonanza contribuirà a distogliere
quei cittadini che
vogliono credere ancora in questo Cristo e li
aiuterà ad avvicinarsi
con maggior fiducia alle istituzioni di Roma.
L’ultimo giorno di
questo mese, alla mezza, condurrete i due davanti
al nostro tribunale.
Saranno immediatamente condannati e così si
concluderà il loro
destino, Ave Gavino! Arrivederci! -
- Arrivederci!
Gavino non voleva
quell’arrivederci; voleva, invece, non essere
presente, assente per
sempre; desiderava, in quell’istante, essere una
nuvola, anche gonfia di
pioggia, tanto, dopo, ci avrebbe pensato il
vento.
Le persone che lo
circondavano, i palazzi, gli animali, la stessa
natura, non avevano,
ormai, alcun senso. Tutto, dinanzi a lui, si stava
appiattendo; ogni cosa
in movimento o statica, stava divenendo
uguale, insignificante e
scorreva come in un lungo e largo fiume, di
acque melmose, pesanti e
quiete. Il sole, anch’esso nascosto, non
l’aiutava, anzi, quella
luce, resa opaca, gli dava fastidio e lo
rattristava ancor più.
Si ritrovò, quasi
passeggiando, vicino a casa. Fece conoscenza coi
due fratelli pescatori,
che avevano ospitato Gianuario e Proto.
Raccontò di loro
l’ultima disgrazia e ne rimasero veramente
sconvolti.
Gli promisero di voler
partecipare al grande processo.
Alla fine, stanco nella
mente, mortificata e sollecitata oltre modo,
accettò l’ordine del suo
corpo, esausto, che gli chiedeva:
- Gavino, stenditi sul
tuo giaciglio, chiudi gli occhi e abbandona,
per questa notte, i tuoi
pensieri! -
Ubbidì, in un silenzio
che pareva comandato.
* * *
Non riposò Gavino,
meditò per la notte intera, parlò a se stesso del
bene e del male; il suo
cuore pulsò forte per ore e ore, per
domandarsi, per
interrogarsi, per frugare nel suo corpo e nella sua
mente, per trovare il
Gavino-uomo, coraggio e sfida, il Gavino
pronto, innanzitutto, a
credere ed agire secondo coscienza, maturità
e fedeltà.
E venne l’alba
successiva a trovarlo ancora immerso in questi
pensamenti profondi, che
lui non disdegnava, ma che si facevano
sempre più pressanti,
per essere accettati tali quali parevano.
Passarono molti giorni e
l’impegno della mente diveniva ancor
più gravoso, ma
accettabile. Non era il ricatto del suo io, ma questo,
comunque, stava
prendendo la forma di una nuova lezione di vita
terrena, impartita, non
da dotti maestri, ma bensì da lui stesso, da
eventi vissuti, da
testimonianze, da parole udite e registrate, mai
dimenticate.
Ora sembrava che lui
potesse rinnegare tutto il suo passato, anche
se, alla luce del sole,
non poteva. Ma quando si trovava di fronte ai
due condannati, ogni
giorno, in quella grotta, si trasformava;
diventava più libero nei
movimenti, nella parola; scherzava
bonariamente e, in tre,
addiritura, sorridevano di quell’evento ormai
segnato e al quale erano
legati.
Gianuario e Proto
seppero della data della loro condanna e l’
accettarono di buon
grado, quasi fosse un regalo.
Non avevano pentimenti,
né intenzioni di vendetta. Avevano
quella grande Fede che
illuminava quel sentiero, dal quale non
sarebbero più ripassati.
Gavino infuse loro
coraggio e di questo approffittò anche lui, che
ne aveva bisogno.
Continuò a svolgere i
suoi compiti, non dando ad intendere ad
alcuno di quello che,
dentro, gli era successo.
Se lo ripeté più volte,
sempre dentro, che lui non era quello di
prima, di un mese fà, di
tanti mesi fà. Desiderava dimostrarlo, a
pochi, a molti, ma ne
aspettava l’occasione.
E l’occasione stava
arrivando, lenta e violenta, e, forse, ancora,
egli non se ne rendeva
conto. Pensava a quell’appuntamento
dell’ultimo giorno del
mese, e vi si stava preparando come se a
essere condannato a
morte fosse stato proprio lui.
Gli ultimi due giorni li
trascorse a casa. Incontrò tanta gente. Tutti
lo conoscevano e ne
avevano grande rispetto. Sapevano del processo
e vi avrebbero partecipato,
anche se tristemente.
Gavino, invece, li
incoraggiava ad esser presenti.
* * *
Quella giornata, quella
del processo, era triste e per Gavino era
diventata dolorosa, se
non altro, perché doveva accompagnare quei
due disgraziati, che
erano divenuti, ormai, suoi grandi amici.
Di buon’ora, percorse le
strade di Turris e s’accorse che molti
erano già fuori, anzi si
dirigevano verso il Palazzo, arrivando fino al
Ponte Romano e tornando
indietro, a mo’ di passeggiata.
Si sentiva nell’aria, di
quell’avvenimento. Evidentemente il passa
parola aveva funzionato,
soprattutto fra le donne, ché gli uomini non
avrebbero potuto
lasciare il lavoro. Giovani, bambini ed anziani
erano lì, in giro, che
aspettavano l’inizio dell’evento. Ma c’erano
molti soldati in assetto
di guerra ed anche altri sconosciuti, asserviti
al Capo.
Gavino stava prendendo
la sua decisione, il suo percorso. Doveva
fare un grande salto.
Passare sopra una montagna, senza scalarla;
attraversare un grande
fiume in piena, senza bagnarsi. Quel dirupo
che, per tanto tempo,
aveva immaginato, che lui vedeva senza che
altri si accorgessero,
era lì, pronto per essere superato.
* * *
Il Palazzo era
circondato ormai da tantissimi popolani, che si
accalcavano
all’ingresso; erano controllati a vista da parecchi soldati,
anche se tutto filava in
ordine. V’erano anche molti curiosi e
denigratori di Gesù
Cristo, ma questo faceva parte della libertà di
ognuno, se non era
imposta. Dunque, Gavino si avvicinò al
proscenio del salone
centrale, quasi in punta di piedi, dovendosi, con
fatica, farsi spazio fra
gli astanti.
Barbaro già confabulava
coi suoi capitani e, di spirito allegro,
sembrava avere una certa
fretta nel liquidare la triste vicenda.
Fu ordinato il massimo
silenzio. Tuonò la voce del governatore.
- Tribuno Gavino! Dove
sei? Accompagna, qui, davanti a noi, i
due condannati Gianuario
e Proto! -
- Eccomi, Barbaro, son
qua e sono solo! - e mentre diceva questo
si andava spogliando
della bella divisa, - i due condannati non sono
con me, ma sono io che
non li ho portati! Ascoltami!
Momenti di grande
tensione, di paura, di sguardi, di brusii.
- Ascoltami! Io sono
quel Gavino che tu conosci, un tuo fedele
soldato. Ho ascoltato
sempre i tuoi ordini, conosco le leggi di Roma,
gli Editti
dell’Imperatore. Ho vissuto in mezzo a voi, ma non ne ho
mai condiviso la vita;
sono stato in mezzo alla plebe, come dite, ma
non ho mai alzato la
spada su uno di loro; li ho, in verità, protetti e
aiutati, nel bisogno.
Da oggi, da questo
momento, Barbaro, signori di Roma, soldati,
comandanti, io sono, si,
Gavino, ma soldato di Gesù Cristo e della
sua religione! Aspetta!,
non colpirmi col tuo ferro insanguinato! -
rivolgendosi a Barbaro -
Sò cosa farai! Sappi che Gianuario e Proto
sono sempre pronti a
morire per la nostra Fede! Io sarò con loro,
perché ho potuto vedere
e toccare con mano quanto empie e crudeli
siano state le vostre
leggi. Voi ammazzate tanti innocenti perché
credono in un solo
Dio,vergognatevi! Non stà nella natura delle
creature umane, di tutto
il creato, sacrificare a dei che non esistono,
pagani, che voi, invece,
adorate. E in nome di questi distruggete chi
vi si oppone, soltanto
perche il suo Dio é un altro.
Vergogna! Barbaro, tu ti
stai macchiando di una colpa gravissima,
della quale il mondo
intero, dopo, parlerà e ti condannerà!
Ricorda che la vita é
bene supremo, di tutti, e nessuno può
decidere di toglierla!
Tu, però, puoi e vuoi continuare a toglierla, con
l’assenso e la volontà
dei tuoi imperatori.
Perciò, e per ora,
prenditi la mia vita!
- Ma cosa stai cialtrando,
Gavino? - sbuffò Barbaro - Non credo a
quel che dici! Qual’é il
diavolo che é entrato in te? -
- Nessun diavolo! E’ la
mia coscienza di uomo, il mio cuore, il
mio spirito che ti
dicono che io sono e sarò seguace di Cristo, ad onta
di quello che tu deciderai!
Anch’io sono pronto a morire, per Gesù,
ma anche per te, per
tutti voi, per tutto il male che si é prodotto e si
stà producendo, in nome
di leggi indegne e inumane! -
- Gavino - riprese
Barbaro furibondo - tu sai quale sarà la tua
condanna! Ti verrà
mozzata la testa, dal collo, così come ai tuoi
compagni! Se continui,
quella sarà la tua sorte! Pensaci. -
Nella sala gremita si
levarono molte voci, alcune inneggianti
proprio a Gavino e a
quel che avea detto.
Stranamente, ma non fu
presa alcuna iniziativa di repressione.
Barbaro, nel momento,
non sapeva cosa fare e allora continuò:
- Dove sono i tuoi
compagni? Perché non sono qui, con te? O li
hai fatti fuggire? -
- No, non sono fuggiti.
Sono dove tu avevi ordinato che fossero;
ti ho già detto che aspettano
la tua condanna e pregano il Nostro
Signore Gesù Cristo
perché ne siano degni. Io stesso mi unirò a loro;
assieme aspetteremo che
Gesù ci accolga nel suo grembo. Tu,
Barbaro, assieme ai tuoi
soldati, applica la tua legge, esegui gli ordini
dei tuoi dei maledetti!
La storia ti giudicherà! Noi ci uniremo in
preghiera, fino alla
morte! -
- Tu non ti muoverai da
qui, Gavino, perché qui tu morirai,
decapitato! Anzi, no,
questo pavimento non può essere insozzato di
tale sangue. Lo
porterete lontano, oltre la rupe di Balai e lì, all’alba,
gli mozzerete il capo,
mentre il mare, di sotto, porterà via i suoi resti,
in pasto ai pesci!
Incatenatelo! -
Urla di disapprovazione
si sentirono, in particolare, dalle donne,
che si avvicinarono a
Gavino e lo compiansero, baciandolo e
abbracciandolo.
Lui ne fu felice e il
suo cuore si empì di amore, amore vero.
Non si mosse, mentre la
platea si vuotava e i soldati
l’incatenavano.
Anche quel suo corpo,
però, si vuotava, ma di altri significati. Si
sentiva più leggero,
quasi assente, nonostante avesse di fronte facce
truci e vogliose di
uccidere.
Rimasero, alla fine,
pochi presenti, ma molte di quelle donne,
andando via, pregavano e
imploravano la benedizione di Gesù su
quell’ uomo, a voce
alta, senza pudore, senza paura, senza che
alcuno le interrompesse.
Barbaro, tuttavia,
appariva un pò ombroso. Nonostante avesse
subito pronunciato
quella parola di condanna verso Gavino, il suo
atteggiamento non
rispecchiava la realtà che stava vivendo.
Quella confessione
l’aveva sorpreso e disorientato non poco; tutto
si sarebbe aspettato, ma
una notizia così non sarebbe neppure
riuscito a sognarla. Si
riavvicinò al condannato, con voce suadente:
- Non voglio ancora
credere a quello che hai detto! Non riesco a
vederti prono, sotto la
fredda lama della spada!; non puoi perdere la
tua vita, buttandola nel
fosso, in nome di una persona che non
conosci, di ideali che
non stanno né in cielo né in terra! Come puoi
pensare di salvarti, se
vuoi vivere dalla parte sbagliata? -
- Non sono fuorilegge,
Barbaro! - replicò Gavino - e non voglio
salvarmi! La legge,
quella vostra, e fatta di queste regole, le quali non
rispettano mille cose.
Una su tutte, la più importante, la vita
dell’uomo, che voi
disprezzate e perseguite, soltanto perché
appartiene a uno che
crede in Gesù! No, Barbaro, voi tutti, compreso
l’Imperatore, siete
volgari assassini; imprigionate e fate morire molti
innocenti e, dopo, ne
fate quasi trofei, da ostentare ai vostri
superiori, ben sapendo
che ne riceverete onori e gloria! Vergogna!
ecco cosa bisogna dire!
L’uomo, la razza umana non é mai caduta
così in basso! Ad ogni
buon conto, io sono già incatenato e sono
pronto a morire. D’ora
in avanti, non farò altro che pregare il mio
Signore, perché fatti
del genere non abbiano più ad accadere. E tu,
Barbaro, poiché lo
credi, fà il tuo dovere! -
Barbaro non riuscì ad
aprir bocca, s’era inibito, da solo.
Due centurioni lo
affiancarono, quasi a proteggerlo; gli chiesero
nuove disposizioni,
visto quello che era successo.
Ne fu irritato e si prese
tempo, tempo che durò un’eternità, per
quei pochi militari che,
con lui, erano rimasti.
Gli sguardi erano tutti
rivolti a Gavino, incatenato e spoglio di
quella divisa che aveva
portato con tanto onore e dignità. Ora era lì,
per terra, abbandonata e
ammucchiata, e la spada a coprirla.
Gavino era stanco, ma
avrebbe voluto continuare a parlare, per
difendere e diffondere
quella dottrina cristiana, che era diventata
sua, da poco; da sempre,
se pensava a tutte le sue perplessità, a tutti i
suoi dubbi, incertezze,
che l’avevano assalito fin dal primo giorno
che era sbarcato a
Turris.
Non parlò, invece,
poiché vedeva Barbaro assai impacciato,
impossibilitato a muover
la lingua. Non ne era capace, é vero, e di
dimostrazioni in tal
senso ne aveva date tante, che lui era un
esecutore di ordini.
Di umanità, di civile
convivenza, di rispetto, di amore verso il
prossimo, non avrebbe
mai potuto argomentare, perché egli si
trovava proprio nella
parte opposta, la più vile, la più crudele.
Allora Gavino provò a
muoversi e, con le catene al corpo, fece un
gran bacano, la cui eco
risuonò per tutto il salone, sinistra.
- Toglietemi questi
ferri dai polsi e dai piedi! - chiese Gavino -
Non devo scappare, né
aggredire alcuno di voi! Lasciatemi seduto e
basta! -
- Guardie! - ordinò un
capitano - liberatelo e rinchiudetelo nella
grotta più oscura del
nostro palazzo. Domani, prima che l’alba
illumini i nostri volti,
dovete portarlo oltre la rupe di Balai, di fronte
a quell’insenatura
profonda, che pochi di noi conoscono. Lì avverrà
il sacrificio! Ci sarò
io e tre di voi. Potete andare! -
Stava terminando quella
tragedia, che tale non era per Gavino,
ma bensì per tutti
quelli che vi avevano assistito, succubi e
impotenti.
Si avvicinò Gallena,
aveva le lacrime agli occhi; sembrava addolorata
e sincera. Abbracciò
Gavino e accarezzò il suo viso, a volergli
trasmettere qualcosa che
lo stesso non riuscì ad intendere. Continuava
a piangere e si
allontanava. Chissà!
* * *
Gianuario e Proto,
immersi in quell’oscurità, attendevano e
pregavano, ma non
pensavano, minimamente, di Gavino, il quale,
quel giorno, non era
nemmeno venuto a trovarli.
La sua mancata visita
non li aveva preoccupati; sapevano, ormai,
della sua integrità,
della sua dirittura morale e umana.
Non sapevano, però, del
fuoco che si era acceso nell’ animo del
loro amico.
Di quel fuoco sacro,
sempre ardente, tenuto sotto cenere buona,
sempre intelligentemente
nascosto, quasi a voler provare e riprovare
la verità, l’andata
verso quella méta cristiana, senza ritorno, costata
tanti dolori,
sopportati, e dei quali nessuno ebbe mai ad avvedersi.
Non desideravano altro
che la fine di quella esistenza, ben spesa e
priva di macchie, di
orgoglio ostentato, di odio accumulato, per tutto
quello che avevano
impunemente subito.
Credevano, già, in
un’altra vita, dove si dà senza avere, dove si
dona senza aspettarne
ricompensa, dove si prega, non per se stessi,
ma soprattutto, per gli
altri, per i poveri, per gli abbandonati, per
tutti quelli che
subiscono ingiustizie e non sanno come difendersi.
* * *
E venne l’alba anche di
quel giorno di ottobre, carica di nubi
gravide, di pioggia, di
tuoni e lampi, segni premonitori.
Il comandante, coi suoi
tre aguzzini, era di fronte all’imbocatura
di quella lunga
spelonca, dove erano i due condannati.
Parlarono coi cinque
energumeni di guardia e lì chiamarono.
Apparvero, dopo un po’
di tempo, Gianuario e Proto, segnati nel
corpo, ma non nello
spirito. Non vedendo Gavino, capirono, per
miracolo, quello che già
poteva essere successo. Non domandarono
di niente e di nessuno,
ma, a voce alta, l’Africano disse:
- Fratello mio, Proto,
abbiamo una ragione di più per essere felici!
Gavino ci ha preceduti
nella casa di Gesù e noi, ora, lo
raggiungeremo, contenti
di stare con lui, di non allontanarcene più.
Continueremo a pregare e
nessuno ce lo impedirà. Pregheremo
per questa terra, che
noi stiamo abbandonando, per tutti quelli che
rimarranno e che
continueranno a soffrire! Un giorno li libereremo
tutti, dalle guerre,
dagli odi, dalle persecuzioni; dobbiamo crederci,
Proto! La bontà del
Nostro Signore non avrà confini nell’universo;
sarà come una grande
isola, dove chi rimarrà cercherà pace, giustizia
e amore! e lì troverà! -
Gianuario s’era lasciato
andare a questi pensieri, che in lui
maturavano in
continuazione, quasi gli fossero richiesti.
Non se ne vantava, ma
egli amava pronunciarsi alla sua maniera,
anche perché sapeva che
chi l’ascoltava, in quei momenti, ne
rimaneva incantato e
meravigliato.
Anche quei quattro
l’ascoltarono, ma più per una loro ultima
preghiera o desiderio,
mentre allentavano le catene, in modo che
potessero camminare.
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