E' appena uscita l'antologia di AA VV La vita in prosa, edita da Puntoacapo Editrice, con la collaborazione di Dedalus.
In questa raccolta, è compreso, tra gli autori segnalati, il seguente racconto di Gavino Puggioni.
Da terra alla terra
Da
bambino abitavo nella mia Finagliosu, uno stazzo situato nell'entroterra fra
Stintino e l'Argentiera, non distante da Porto-Torres, l'antica Turris
Libissonis, di epoca romana.
Quel
posto era ed è stato il paradiso della mia infanzia, perduta, ahimè! e
ritrovata assai dopo, in quella memoria, mia e nostra, che ha milioni di
megabyte che sono ancora, scientificamente, da scoprire.
Di
quel paradiso ho ricordi nitidi anche di persone che cercavano di arrivarvi,
non tutte buone...molti cattivi, molti maligni, pure raccomandati, per fare i
custodi di greggi o per costruire un pozzo o, alla fine, per una semplice
battuta di caccia e non solo al cinghiale.
Ma
io, da bambino, di queste cose non sapevo niente, credevo di vivere la terra,
dentro la terra, quella vera, fatta anche di fango, quello naturale, quello
che, a volte, mi sporcava irrimediabilmente le scarpine pulite che si calzavano
una volta alla settimana per andare alla messa domenicale, nella chiesa di San
Costantino, a La Pedraia, distante un paio di chilometri, percorsi sempre a
piedi, col sole o la pioggia, ai margini di un campo di grano o avena, subito
dopo riparato da un tranquillo boschetto
di ulivi, oleandri, piante di mirto e querce secolari.
E
il cielo sopra, grigio azzurro o come Lui voleva, mi diceva nonna Feffa che di
tempo e di nuvole se ne intendeva, altro che Bernacca!
A
qualche chilometro di distanza c'era la miniera di Canaglia, solo ferro e, dopo
ancora, adagiato verso il mare, l'antichissimo borgo dell'Argentiera, miniera
di blenda e argento, adesso residuato archeo-industriale, in cerca di altra
luce che spero venga a risplendere assai presto.
Ricordi?
Certo e anche ricordi bambini perché tali si era in quella natura ancora
incontaminata dove nonna Feffa, gli anziani e babbo, seppur giovane, erano i
fari sempre accesi, per una vita, la mia, la nostra, per tante vite che si
stavano aprendo alla terra, quella terra dalla quale, pochi anni più avanti,
avremmo dovuto “fuggire” per colpa del Fato avverso, ancora presente ma sempre
latente.
Ho
vissuto in quello stazzo gli ultimi anni di quel “fascio” di vita, non ho e non
abbiamo patito la fame la sete la miseria di quella guerra, nemmeno
persecuzioni. Semmai, tutto il contrario, in quell'oasi, e non era la sola,
poiché la campagna era fertile e donava i suoi frutti, era coltivata nel rispetto delle stagioni, popolata da
tanti contadini che l'amavano e la rispettavano e babbo era uno di quelli,
orgoglioso del proprio lavoro e di donare ad altri quel che loro veniva piano
piano a mancare.
Entrambe
le miniere, quella di Canaglia e dell'Argentiera, lo venni a sapere dopo, erano
obiettivi possibili per bombardamenti nemici, come d'altronde l'Asinara e il
porto commerciale di Porto-Torres, e questo per togliere ricchezza che
produceva, oltretutto, anche estrema miseria umana, regalata a quegli operai
per lavorare ed esserne anche degni!
E
allora succedeva che da quelle miniere, due o tre volte alla settimana, forse
di più, ora non ricordo bene, partiva “l'allarme”, sibili prolungati di sirene
(mai odissee!) che creavano il massimo panico fra gli adulti perché tutti si
aspettavano bombardamenti a raffica, esplosioni e distruzioni di quel poco che
esisteva ma che era tantissimo per noi.
L'allarme
durava una trentina di minuti durante i quali babbo, mamma, nonna e tutti gli
altri si andava di corsa verso una collinetta vicina, alla cui base c'era e c'è
ancora una grande grotta di roccia granitica, chiamata “la curona di ri faddhi” (la corona delle
fate) e là, dentro, decine e decine di persone si rifugiavano, in attesa di
quegli eventi tragici che grazie al cielo non sono mai avvenuti. Solo paura,
terrore, spavento, anche se a noi, bambini, niente sembrava stesse accadendo se
non l'incanto e la meraviglia di vedere tante persone, lì radunate, a guardarsi
in faccia, chi a parlare, chi a pregare e si vedeva anche qualche rosario
sgranellato da fragili dita di altre nonne assieme alla mia che l'aveva sempre
in tasca del grembiule da cucina.
Qualche
tartaruga si avvicinava alla grotta, girava tra di noi, non aveva paura,
brucava steli verdi e teneri assieme agli amici passerotti mentre alcuni cani,
Fido, Nerone, Mani Bianca, ci facevano da guardia ma non capivamo da chi.
Quando
l'ultimo dei tre sibili di sirena cessava di farsi sentire, un boato di voci,
un battimani all'unisono, quasi una liberazione, gli occhi puntati al cielo
terso e...via!, tutti fuori da quella grotta, pacche sulle spalle, qualche
abbraccio, perfino lacrime da occhi di coloro che in quella guerra avevano già
perso un padre, un fratello, un amico.
E
allora, noi bambini, di nuovo liberi, incontrollati in quella campagna, giù nel
sentiero che portava fino a casa, fino al patio grande dove svettava il mio
olmo, un gigante della natura, vecchio di oltre cent'anni, testimone di altre
vite ed ora della nostra, della mia, rimasta nella sua ombra per sempre.
Per
tanto tempo mi sono arrampicato nei piani alti delle mie memorie, ricavandone,
pure, file sfilacciate di ombre mnemoniche, fino al fastidio dello spirito, al
quale non si può comandare nel suo ramingo andare.
Eppure
questa età non mi vieta, anzi, non mi nega mai quel piacere che provo quando,
apparentemente solo, ritorno in quei viali della mia infanzia, veri e anche
surreali, quasi metafisici, quando la vita aveva altro significato, come il suo
senso che ne scandiva le giornate, le ore e i giochi, quelli di una volta,
impregnati, tutti, dai profumi di una terra che si offriva al sole, alla luna,
ai duri inverni, alla leggiadria della primavera, ai meriggi assolati delle
lunghe estati, alle malinconiche giornate d'autunno.
Mi verrebbe da scrivere mondo antico,
ricordando o emulando i tempi di Fogazzaro, ma lo sfioro soltanto, perché,
quello mio, davvero, è ed è stato quel piccolo mondo antico da cui ho tratto
vita e vitalità, da cui ho tratto, molto dopo, ansie e dolori coccolati,
tuttavia, da una coltre calda e indistruttibile del mio pensiero, divenuto
essenza. Essenza colma di mille e un cassettino, dove la memoria è andata a
pescare i suoi segni coi suoi sogni, pagine scritte mentre il sole bruciava le
messi o i fulmini abbattevano l'ultimo degli alberi più vecchi, naturalmente.
Ed
ora, al contrario, mentre apro le porte della senilità, mentre ripercorro, a
mo' di gambero, il mio tempo passato e quasi remoto, mentre tento di fare
addizioni a tutte le sottrazioni subite, mentre credo di trovarmi solo, al
bivio di questa vita, mi chiedo se io o il mio alter ego sono in grado di
continuare in questo guazzabuglio di disordine umano dentro il quale, non
volente, mi sono ritrovato. Non riesco a svincolarmi da questa rete, invisibile
ed inossidabile, perché il mondo che mi ospita vive un'altra vita, si nutre di
altri valori, ama l'indifferenza, è armato d'arroganza e s'empie, ma ha già
debordato, di un vocabolario nuovo che lascerà cicatrici dolorose alle future generazioni le quali, spero, non
abbiano mai a nutrirsene.
Il
brusio di sentimenti, le esclamazioni di gioia per un oggetto nuovo o
ritrovato, l'interesse al bene comune, come la grande brocca o la giara da cui
usciva acqua per tutti, l'abbraccio universale alla verità, all'umiltà, alla
dignità umana, al rispetto di chi lavora e di chi non lavora e non ha i mezzi
per sopravvivere, ebbene, questi sentimenti sono venuti a mancare, sono
divenuti pezzi di granito dove una volta si poteva scavare, ora non più.
Si
viaggia per la conoscenza (anche per la virtù?), per il piacere di sapere, ma
si viaggia anche per fare e portare la guerra, anche quella odiosa delle
religioni, molto diversa da tutte le altre.
Si
naviga per mare ed oggi anche per terra, per cui anch'io sono diventato un
navigante, statico e virtuale e me ne prendo tutta la responsabilità, poiché
anch'io ho seguito una moda, un modus vivendi dal quale non bisognerà mai farsi
sopraffare. E comunque questo navigare non mi appaga, essendo impreparato a
tutto ciò che giornalmente cambia e mi crea quasi confusione, mi fa diventare
ateo, non credente verso l'anima di questa terra che ha perduto la sua unicità,
il suo mistero, questa terra che sta perdendo la sua storia perché la stanno
ricostruendo in provette di un futuro che agli uomini restituirà ben poco.
Quel
tanto di buono che s'era creato si sta sfaldando in altrettanti pezzetti di
terra dove non si sa più cosa fare o rifare. Si distrugge e basta, ben sapendo
che un'altra arca di Noè non avrà più ragion d'esistere.
Forse,
in un futuro lontano, il Polo Nord e il Polo Sud si incontreranno ma non
avranno mani e braccia per stringere amicizia.
La
Terra, quella nostra, abita nuda al loro centro e si surriscalda non tanto per
l'amore quanto per l'odio che vi si versa, che diventa fuoco e fiamme,
pericolosi anche per i ghiacciai, una volta eterni.
E
allora ci sarà un'altra storia.
Gavino Puggioni
Ci sarà un'altra storia... solo per chi è stanco di costruire questa.
RispondiEliminaSono solo un poco più giovane di te, ma nella mia infanzia ho fatto in tempo a vedere i rifugi antibombe scavati nelle mura di Ferrara e ho ascoltato i racconti di mia madre...
Non sei solo, Gavino, e lo sai, guarda in terra, trova il germoglio di un albero nuovo che sta crescendo.
Chissà perchè quasi tutti, invecchiando (è cosa che hanno detto anche i tuoi nonni), troviamo che niente è più come prima,ma soprattutto che niente sarà più come prima.
Angela Fabbri