Di Andrea Giampietro
Nella prefazione alla sua prima
raccolta di poesie, “Il leone non mangia l’erba” (Remo Croce Editore, 1974), il
grande scrittore Aldo Palazzeschi, oltre a lodare giustamente il suo talento, scrive
di lei: «Abita in un sottoscala vicino a Stazione Termini, in una topaia in
mezzo a libri e pochi quadri che gli hanno regalato gli amici pittori. Non sa,
non vuole sapere che le case umide e senza luce sono un danno anche se
favoriscono la meditazione e la concentrazione. Mi ricorda, per certi aspetti,
la follia del povero Campana». Quanto è stato duro per Dante Maffia affermarsi
nell’ambiente letterario italiano, e soprattutto in quello editoriale, che
risponde principalmente alla logica dell’interesse, del profitto, ed è
sottomesso ai giochi di potere interni alle case editrici? La purezza del suo
talento, la solidità della sua passione, il vigore della sua determinazione,
sono riusciti a farle vincere qualsiasi ostacolo, a farle sostenere ogni sacrificio?
“Non
ho mai saputo bene in che cosa io abbia potuto ricordare ad Aldo Palazzeschi
“la follia del povero Campana”. Non credo l’ambiente del sottoscala in cui
vivevo; forse il mio comportamento che non badava alle comodità, il mio
preferire acquistare un libro anziché mangiare, il mio essere anarchico in ogni
direzione, soprattutto letteraria. Non accettavo le graduatorie imposte
dall’alto, i “suggerimenti” dei recensori ufficiali, vagavo per Roma disperato
ed esaltato, in preda ad angosce e a veri e propri deliri e ogni tanto parlavo
coi treni, a Stazione Termini, che andavano verso la Calabria dove c’era il mio
mondo, la mia infanzia, mia madre e mio padre morti giovani. Questo mio essere
libero e a volte irrispettoso ovviamente non mi ha giovato a “fare carriera”.
Non piegarsi ai dettati degli impiegati della letteratura, non accettare tutto
per oro colato mi rese antipatico e pericoloso. Avevo, grosso modo, gli stessi
atteggiamenti di Dario Bellezza, con cui era nata una solida amicizia, ma a lui
perdonavano l’irriverenza e le incursioni sbadate o goliardiche, cattive o
colleriche; a me no, e a torto o a ragione io attribuii queste due misure
diverse all’omosessualità di Dario. Tuttavia non so se sia stato duro
affermarsi nell’ambiente letterario. Io non miravo a nessuna carriera (in
poesia non c’è, non ci sarà mai!), godevo di scrivere (e soprattutto di
leggere), godevo, dopo avere pubblicato il libro con il libraio Remo Croce per
il quale organizzavo le serate nella sua libreria, dei giudizi che mi
arrivavano per posta. Soprattutto una cartolina postale mi esaltò oltremodo, a
firma di Mario Praz, diceva che ero riuscito a mettere a segno parecchi colpi
ne Il leone non mangia l’erba. Insomma, vivevo la letteratura come
vita e mi bastava, anche se a un certo punto mi resi conto d’essere guardato a
vista, come se fossi un pericolo che potesse portare un qualche dissesto
all’apparato, ma anche quando incontravo poeti e scrittori io li vivevo
attraverso i loro scritti e non per il loro carattere e per i loro giochi di
potere e ciò forse li “smontava” anche se la diffidenza dell’“estraneo”
restava”.
La poetessa, o meglio, il poeta
(come lei stessa amava essere definita) Anna Achmatova, in una celebre poesia,
riferendosi alla sua Musa scriveva: «Che cosa sono onori, libertà, giovinezza,/
di fronte all’ospite dolce/ col flauto nella mano?». Mi piacerebbe che lei
descrivesse lo stato di grazia vissuto – al contempo sofferto e goduto – dal
Poeta, che fa di lui un essere umano d’eccezione, destinato, che sia per vocazione
o per condanna, a un destino diverso e forse per questo più vero.
“C’è
una sorta di mitologia creata dai poeti sul proprio dono. Da fuori questo dono
spesso diventa stravaganza, sconfitta, demenza, pazzia e dunque le parole della
grande poetessa russa servono a darci l’idea d’uno stato di grazia molto
personale che soltanto gli illuminati posso concepire e accettare, credere. Mi
domando che cosa sia e che cosa sarà il poeta nella società sempre più
tecnologica a cui ci stiamo avviando. Internet è una democrazia così esasperata
che con estrema facilità porta al libertinaggio e al pareggio di bilancio delle
menti. Tutti possono esistere con i loro versi e così l’intasamento è bello e
fatto, compiuto. Come discernere, come salvarsi dalla valanga del tritume,
dell’ovvio, della finta letteratura? Nelle scuole, tra l’altro, la poesia è un
optional faticoso e “inutile” e non ci si educa più a sentire l’eco fascinosa
dei versi che condensavano fiumi di emozioni. Ora si bada al sodo, che non ho
capito veramente che cosa sia, e si va avanti privi di qualsiasi riferimento
che abbia attinenza con lo stupore. Tutto è piatto, grigio, privo di farfalle e
di arcobaleni e perciò il poeta vero rischia d’essere scambiato per un marziano
che arriva per scompigliare le carte del risaputo e dell’acclarato. Davvero il
poeta è un essere eccezionale? O una vittima che tenta disperatamente di
avvisare l’uomo che le emozioni sono il sale dei rapporti umani creando così
diffidenza e scomodità? Non è casuale se nella Milano da bere (magari l’acqua
inquinata dei Navigli) sia invalsa l’idea che la poesia debba essere catalogo
di oggetti e di sbiadite fotografie del quotidiano e non più stupore che cerca
il segreto del vivere, del godere, del soffrire, dell’amare e del morire”.
In una delle sue ultime raccolte
di versi, “La biblioteca d’Alessandria” (edita da Lepisma, e giunta ormai alla
sua quarta edizione), lei immagina una serie di epigrafi degli scrittori che
sono bruciati allegoricamente insieme ai loro libri nel rogo di quello che fu
il più grande tempio culturale dell’antichità; una sorta di “Spoon River” in
cui questi autori parlano come dall’aldilà, lamentando la dipartita dei loro
scritti, che poi ha rappresentato la perdizione della loro anima. Oggi siamo
arrivati a questo? Insomma, la memoria della grande letteratura è davvero
finita al macero, e un autore contemporaneo che, forte della propria eredità
classica, voglia proporre un linguaggio nuovo, si ritrova a non avere voce
nell’attualità, limitandosi per questo a far sentire soltanto la propria eco,
come se non potesse operare che in un oltretomba esistenziale?
“Sì,
purtroppo siamo a questo e non per colpa della letteratura, della poesia, degli
scrittori veri, ma per colpa del potere editoriale che corre smodatamente e con
aperti atteggiamenti da ruffiano appresso all’attualità. È come se avessimo
saltato un’epoca interamente (dall’antico direttamente al post moderno saltando
a pie’ pari il moderno) per giungere a un’altra nella quale mancano le
coordinate che possano suturare e dare l’esatta misura del concatenamento e
degli sviluppi. Ci sono gravi colpe dei velleitari che, chissà perché, voglio
essere poeti a tutti i costi senza esserlo. E ciò dissesta la sostanza del
mondo, perché guasta il senso della verità e distorce i rapporti della parole
con l’uomo. Un problema complicato e complesso, che se no avverrà, come mi
piace dire, un clamoroso errore, non avrà soluzione se non catastrofica. Perché
la poesia, intesa in tutta la sua estensione e profondità, è il sale della
terra, l’unica lente capace di far vedere l’esatta configurazione del polline
che anela alla vita”.
Oltre ad essere poeta, narratore,
saggista, traduttore, critico d’arte, giornalista, lei è stato docente
universitario. Durante il Regno d’Italia, in epoca risorgimentale, ad esser
nominato Ministro dell’Istruzione fu nientemeno che il grande critico
letterario Francesco de Sanctis. Sappiamo bene da chi sia stata ricoperta
questa carica negli ultimi anni, da nomi che non fanno per niente onore alla
storia e alla dignità nazionale, e che hanno paurosamente contribuito a
corrompere il livello d’istruzione dei nostri giovani. Lei non crede che un
serio e profondo investimento da parte della politica nella scuola pubblica
andrebbe a dare quel sostegno di cui più che mai oggi la cultura, l’arte e la
poesia del nostro Paese necessiterebbero?
“Non
ci sono dubbi. Negli ultimi decenni c’è stato un patto diabolico per ridurre la
portata della scuola. A pensarci bene sembra un patto massimalista organizzato
solitamente dai regimi totalitari che devono far piombare i popoli
nell’ignoranza per poterli manovrare a piacimento del potere. Ripeto spesso,
nelle mie conversazioni in pubblico (librerie, associazioni, scuole) che tutto
dipende dalla scuola ed è la scuola che forma, che suggerisce, che accende, che
determina le sorti di un popolo, che crea le strutture manageriali di un Paese.
A cominciare dai vari professionisti, medici, ingegneri, impiegati, dirigenti,
professori, eccetera. Dunque la scuola come fonte, come partenza; l’atletica ci
insegna che se si sbaglia la partenza non si arriva mai primi”.
Cosa direbbe a un giovane poeta affinché non
perda fiducia nel proprio cammino? Vale ancora e sempre la pena combattere e
soprattutto vivere per la poesia?
“Dare
consigli ai giovani è sempre un grave errore. Bisogna dare gli esempi. Comunque
tutti i cammini hanno sorprese, inghippi, scoscendimenti e radure. Bisogna
incamminarsi e superare gli ostacoli. Quanto a vivere per la poesia è un
problema che soltanto i singoli possono stabilire. Io però direi a tutti di
vivere con poesia, guardando sempre che cosa sta dietro e attorno alle cose,
agli eventi, ai gesti, alle azioni. Vivere con poesia significa tenere conto
della sensibilità degli altri, avere rispetto delle idee degli altri, suggerire
di saper rispettare un fiore (la metafora è da allargare a tutto), come diceva
Erich Fromm, godendone il profumo e non cogliendolo e buttandolo, ma
trapiantandolo”.
Mi piacerebbe, per chiudere, che
lei ci offrisse un ricordo di alcuni grandi autori che hanno fatto parte del
suo percorso umano e professionale: Aldo Palazzeschi, Dario Bellezza e Giorgio
Caproni.
“Una
giovane professoressa dell’Università di Tor Vergata di Roma ha intenzione di
curare un volume dei mie ricordi con i grandi autori con cui sono stato amico o
comunque con cui ho avuto dei rapporti umani o professionali. Così sono stato
costretto a ripercorrere il cammino delle tante occasioni italiane ed estere
per ricordare incontri importanti e conversazioni. Certo, Palazzeschi, con la
sua umanità dolce, Bellezza con i suoi umori indomiti, Caproni con la sua
musicalità umana, ma anche Jorge Luis Borges, Han Suyn, Rafael Alberti, Josif
Brodskij, Vargas Llosa, Elsa Morante, Sciascia, Calvino, Moravia, Carlo Levi,
Primo Levi… Un elenco infinito, perché io, partito per Roma da un paesino
sperduto della Calabria, che contava meno di duemila abitanti, arrivai assetato
di conoscenze e avido di frequentare, almeno di sfiorare i miti che mi avevano
riempito il cuore e la mente. Non mi fu difficile, circa mezzo secolo fa
esisteva ancora la civiltà artistica e letteraria e se avevi delle carte da
giocare, se eri autentico, ti veniva data retta. Quel mondo ormai è sparito per
dare posto al chiacchiericcio giornalistico e a una poesia che non è nemmeno, a
volte, versificazione, esercitazione letteraria. Un segno dei tempi di cui
prendere atto, ma senza farsi trascinare nella melma, nel gorgo insensato delle
pattumiere issate come bandiere. La poesia era e resta il lievito del mondo.
Soltanto che adesso bisogna scovarla in posti impensati, ma è pronta ad
esplodere alla prima buona occasione per ridare al mondo la faccia pulita in
modo che gli uomini possano ritornare a stupirsi ogni mattina dell’alba e
stupirsi del mistero delle semplici cose”.
L'autore: Andrea
Giampietro
Andrea Giampietro nasce in Abruzzo il 3
dicembre 1985.
Dopo aver terminato gli studi liceali, comincia un percorso di studio da
autodidatta, dapprima interessandosi di psicoanalisi freudiana, e in seguito
quasi esclusivamente di letteratura e soprattutto di poesia. Nel marzo 2010 la
casa editrice romana Lepisma pubblica la sua prima raccolta di versi, "Il
paradiso è in fondo", presentata da illustri poeti quali Dante Maffia
(autore della prefazione) e Maria Luisa Spaziani. Nel 2012 viene pubblicata la
sua nuova silloge poetica, "Di notte a luna spenta" (Edizioni Il
Foglio). Attivo soprattutto come traduttore letterario, realizza versioni
italiane dei grandi poeti dell’Ottocento francese (Baudelaire, Verlaine, ma
soprattutto "Il battello ebbro" di Rimbaud e "Il pomeriggio d’un
fauno" di Mallarmé). Dall'inglese traduce Shakespeare e Edgar Allan Poe,
ma soprattutto il poema "La ballata del carcere di Reading" di Oscar
Wilde, pubblicato nel marzo 2012 da Edizioni Libreria Croce. Dal dicembre 2012
collabora ufficialmente con la rivista letteraria online
"l'EstroVerso" http://www.lestroverso.it/