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martedì 13 agosto 2013

Presentazione della silloge di Gavino Puggioni a Castelsardo

Castelsardo, 7 agosto 2013
Sala XI del Castello dei Doria


Riporto integralmente l’esegesi che lo scrittore-poeta Giuseppe Tirotto ha voluto fare, parlando  della  mia silloge “Nelle falesie dell'anima”, durante la presentazione della stessa.


Quando qualche mese fa l'amico Gavino Puggioni mi ha parlato della sua ultima raccolta poetica e del piacere di poterla presentare qui, a Castelsardo, luogo nel quale ha da sempre coltivato “affinità elettive” per svariate ragioni, siano professionali, d'amicizia o di affetti, ha anche scandagliato, con molta discrezione, la possibilità che fossi io ad accompagnarlo nel disvelamento della sua opera, in questo pittoresco antico borgo nel quale io sono nato e dove, eccetto qualche piccola parentesi, ho sempre vissuto.
Attestata la mia disponibilità, mi ha fatto omaggio del libro che mi ha colpito immediatamente per il suo titolo accattivante, “Nelle falesie dell'anima”.
Colpito perché presentava già la coincidenza di richiamare un elemento essenziale e caratterizzante del titolo della mia prima raccolta di poesia “ La forma di l'anima”.
Quell'anima che tanto intriga poeti, scrittori, filosofi e teologi, ognuno per il proprio punto di vista, per la propria idealità, per la propria fede.
La forma, appunto, ed io, partendo da una singola lirica dove provavo a contenere l'anima in una dimensione finita, l'ho estesa, poi, al titolo dell'intera raccolta, anche perché lo stesso titolo mi aveva portato fortuna, facendomi vincere un premio importante in conseguenza del quale ho attraversato l'oceano, planando alla Fiera del Libro di L'Avana, a Cuba, dove si sarebbe svolta la premiazione, avendo, questo Premio vinto, valenza Mondiale. Un'esperienza irripetibile ed arricchente per il viaggio verso un continente lontano e per il contatto con la poesia internazionale, specie quella sudamericana, così similare alle nostre tematiche sarde.
Titolo, posso dire, azzeccatissimo, anche se, per lo più, noi poeti, il titolo lo diamo ad opera finita, in quanto, dopo l'incipit, non immaginiamo neppure dove la poesia stessa ci porterà e molto spesso lo diamo inconsapevolmente.
Ciò, a proposito de “La forma di l'anima”, ho potuto constatarlo lettura dopo lettura da parte degli altri, perché quella forma di anima, che nella mia idea originaria era semplicemente la forma del mio paese, Castelsardo, già nella motivazione di quel Premio Internazionale, veniva stravolta ma allo stesso tempo le calzava perfettamente, tanto che ogni volta che veniva commentata sembrava che fosse riscritta di nuovo, rendendo palese che la poesia sfugge a qualsiasi classificazione preordinata, così come l'anima non può essere costretta in nessuna forma.
A dirla con il professor Nicola Tanda che, commentando solo il titolo, ebbe a dire: La forma dell'anima? Eh! cosa da niente è....

Ecco, se io, consapevolmente o inconsapevolmente, mi sono azzardato sulla Forma dell'anima, l'amico Gavino Puggioni l'ha avventurata tra le falesie, rocce come si sa impervie, spesso inaccessibili, a volte inviolabili.
Magari, e questo lo potrà dire solo lui, queste falesie avranno pure un riferimento materiale e geografico, nel senso che può essersi ispirato alle familiari falesie di Balai, a quelle celebri di Capo Caccia o a quelle ardite e selvagge dell'Ogliastra o ancora a quelle ciclo-televisive delle Dolomiti, falesie morte o inattive queste ultime, a differenza di quelle elencate prima  in quanto vive, perché battute direttamente dal mare nostrum, sardo.
A parte la differenziazione scientifica, io sono però certo che le falesie di Gavino siano falesie metaforiche, falesie connotative su cui l'anima inquieta, di lirica in lirica, s'impenna e precipita e di verso in verso si libra, plana e scende in picchiata.  Non può essere che così se si leggono le poesie della raccolta, strutturata su quattro sillogi, dove una delle parole più ricorrenti è indifferenza, una vera e propria ossessione, per Gavino, l'indifferenza, quasi che egli  aborrisca  questo stato di inerzia, giacché la vita è un meraviglioso miracolo a cui ogni essere vivente, specialmente l'uomo,  debba prendere parte con tutto sé stesso. Il sacrilegio è attraversare la vita da spettatore e questo mi richiama una celebre poesia del poeta turco Nazim Hikmet, in una struggente poesia-lettera dedicata al figlio, dove lo esorta a non passare su questa terra da inquilino  ma di lasciare un segno del proprio passaggio, di amare tutti gli aspetti della vita stessa, ma soprattutto di amare l'uomo.

Credo che chi leggerà il libro di Gavino, tanto di questo troverà, già questo concetto prima che in versi lo esprime lui stesso nella prefazione Perché scrivo, dove a corollario delle motivazioni per cui scrive, esalta la Vita che deve essere vissuta in ogni sua piega, per essa scrive come un eterno innamorato, in essa rimargina le ferite credute inguaribili, concludendo con l'esclamazione:

Oh! cosa non si farebbe per la Vita!

E già! cosa si potrebbe fare se non si avesse fiducia nella Vita?

Dubbio che Gavino non si pone, se è vero che l'altra parola ricorrente nel libro, quasi a bilanciare la detestata indifferenza, è speranza. Speranza nella vita, nell'umanità, nel futuro, sebbene questo sia stato tradito, violentato, violato da una civiltà avanzata putrida e maleodorante che nel suo furore consumistico ha lordato l'innocenza originaria. E questo è il concetto lorchiano del regreso, del ritorno alle origini, alla purezza del ventre materno, perché chi va avanti, come l'acqua corrente, s'intorbida e non vede le stelle.

Sarà per questo che le figure più significative della silloge siano i bambini, i simboli della purezza assoluta, a cominciare da quello che apre la raccolta, che vorrebbe aprire un mondo sicuramente migliore, sicuramente più giusto, con quella chiave simbolica che stringe tra le mani, un mondo dove far sciamare i milioni di bambini senza sorte, quelli che le statistiche e le agenzie di rating  non contemplano. I bambini del Darfur, delle bidonville planetarie, i bambini orfani, delle guerre, dei soprusi, della fame.

La poesia di Gavino è una poesia particolare, con accostamenti di termini audaci, a volte talmente distanti e opposti che fanno sprizzare quella scintilla che Ungaretti definiva la vera poesia!
Talvolta vi si riscontrano echi surrealistici, in altre la vitalità espressionista delle tinte forti, esagerate e, in questo contesto, egli lascia fluire nelle sue liriche emozioni dense, pervase da un misto di speranza e di rassegnazione, in una atmosfera coinvolgente, sorretta dalla consapevolezza dei valori della vita in cui crede fermamente.
E così sono anche spiegate le umane emozioni del sottotitolo che, poi, tanto sottotitolo non è!

Come dicevo, questo generoso libro di Gavino è strutturato su quattro sillogi differenti,  oltre che per le tematiche. anche per la misura.

La prima, la più capiente, che con 34 liriche potrebbe costituire un libro a sé stante, titolata  Del senso della vita,  è aperta dalla poesia prima accennata, Il bambino con la chiave, che sembra proprio cercare la serratura giusta su cui far scattare il chiavistello del senso della vita. Le altre liriche che seguono sono accomunate da quella ricerca corale, per capire e cercare di spiegare il senso della vita secondo la prospettiva del poeta.

La cifra distintiva della seconda silloge è il silenzio, già disvelata nel titolo ossimorico: Messaggi di silenzio.
Messaggi che solo il silenzio sa trasmettere, che discendono i gradini del tempo, che volano su altri pianeti, che gridano negli occhi dei bambini del terzo e quarto mondo, se qualche volta il quotidiano ne parla, che tacciono, nei  nostri, perché senza senso, spesso rivolti  all'effimero.

La terza silloge è costituita da Pensieri vagabondi, pensieri che spaziano il mondo conosciuto e quello immanente dell'irrazionalità. Dal Darfur all'Iran, dalle acque che non riusciranno mai a lavare i misfatti dell'uomo ai cieli vuoti quando le madri urlano di dolore per i figli che alzano le mani per la paura.
Pensieri che si fanno rimembranze, rivivendo giochi di bambini o scampoli di vita studentesca, quando ancora la televisione non c'era. Pensieri randagi, pensieri picareschi tra Carloforte e l'Argentiera, tra un risveglio e una follia, pensieri di oggi, di ieri e di domani, perché in fondo la vita è bella e merita di essere vissuta!


La quarta silloge, già dal titolo E si fa sera, prelude alla stagione decadente della vita.
Ogni lirica, qui, diventa così il resoconto del passato, i toni via via crepuscolari, non tanto in senso cronologico o esistenziale quanto in termini letterari, poiché emergono le tematiche e gli stilemi della corrente letteraria di fino Ottocento, primi del Novecento.
In effetti il Crepuscolarismo è la versione italiana del più celebrato Simbolismo francese, il quale, rifiutando ogni forma di poesia aulica, eroica e celebrativa, si propone di cantare le piccole cose della vita.
Ciò non significa che la poesia sulle piccole cose quotidiane non sia alta. Anzi, spesso ha esiti altissimi; d'altronde, cosa c'è di più eroico della quotidianità che accomuna miliardi di persone?
Così, eccoli quegli esiti, nei versi di Gavino: gli sprazzi di vita quotidiana, i flashback di un antico mondo contadino, con falci, aie e covoni, immagini di sbiadite case di vacanze; ecco riaffiorare, con i ricordi, l'universo interiore dell'innocenza bambina.
Emblematica, in questo senso, la poesia  Diario breve di giorni lunghi, un vero e proprio diario di vita che, soffusamente, ripropone l'infanzia mitica nel luogo mitico dell'anima, il mare di speranza affrontato con una barca che ha consunto e perso pezzi nell'attraversarla, e ,se pure in disarmo, ha ancora spazio per ricevere carezze, ancora di speranza e di amore.

Ed è proprio questo, forse, il messaggio che Nelle falesie dell'anima promana.
In qualunque modo si cerchi o si dia un senso alla vita, vuoi con messaggi gridati o silenziosi, vuoi attraverso pensieri  fermi, austeri  o vagabondi, alla fine, sempre si farà sera, inevitabilmente.
Sarà, allora, importante verificare se nella nostra stiva malandata ci sia ancora spazio per ricevere quelle carezze di cui ho appena detto.


Giuseppe Tirotto


2 commenti:

  1. Quattro punti cardinali – ove ognuno vive di luce propria regalano emozioni che si aggrappano in particolare a quel sentire bambino che molto spesso dimentichiamo, creando cordoli affinché il bene possa prevalere su tutto. E’ vero: indifferenza e speranza uniti in un magico bouquet.Berta Biagini

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