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martedì 20 marzo 2012

NEL 1943? AVEVO QUATTRO ANNI


Gavino Puggioni. E questo  pensiero  m’è arrivato ieri l’altro, grazie a quel Lucio Dalla che se n’è andato in silenzio, nel suo letto d’albergo, dove quella Signora l’ha sorpreso.
Avevo quattro anni, nel 1943, ed abitavo con la mia famiglia in località Finagliosu,  nome che pare derivi da “finaglia”= avena, quindi terra ricca di graminacee e di altro, in un casolare lungo lungo e accogliente, colmo d’amore per quella terra che dava puntualmente i suoi frutti assieme alle stagioni che, allora, erano anch’esse quattro ed ognuna, all’arrivo, faceva il suo bell’inchino a quella successiva, con gli odori e i sapori di quei momenti.
Avevo una sorellina, più piccola di me di due anni, ma avevo babbo e mamma, avevo una casa grande, accogliente, luminosa, senza luce elettrica, ma c’erano le lampade ad acetilene e le candele steariche, alla luce delle quali nonna Feffa ci accompagnava a letto.
Di fronte a casa un grande patio in terra battuta ed un albero immenso, il mio olmo, vecchio di cent’anni, possente e bello e pieno d’amore per noi bambini, ai quali, d’estate, regalava ombra e frescura; era il nostro baobab e da lui abitavano passerotti, cardellini, cinciallegre, merli e qualche corvo che veniva regolarmente allontanato dagli adulti, ma noi non ne sapevamo il perchè.
Nel 1943 c’era anche e ancora la guerra, ma noi non sapevamo niente di guerra.  Lì, a Finagliosu, c’era solo pace e non solo per noi.
Però si sentivano i rumori di questa guerra della quale gli adulti avevano giustamente paura, pur senza crearsi inutili problemi.
A qualche chilometro da noi erano in attività due siti industriali, uno era a l’Argentiiera, borgo mineraio antichissimo, sfruttato  già in epoca romana per le sue riserva di argento e galena e il secondo era in località Monteferro-Canaglia, dove si estraeva ferro e vi lavoravano tanti operai delle zona.
Ho citato questi due siti perchè da essi e da chi li dirigeva, partiva, sibilante, una sirena che si sentiva in tutto il circondario, che avvertiva che uno o più stormi di aerei tedeschi stava per sorvolarci e mollare qualche pillola di fuoco. Era allarme per tutti, bisognava correre ai ripari e noi ce l’avevamo, un riparo, pronto, a 200 metri e naturale.
Noi di famiglia, compresi i così detti servi e pastori e guardiani e molti altri, vicini, si doveva correre e rifugiarsi in una grande e granitica grotta, ai piedi del nostro Monte, chiamata “la curona di ri  faddhi” (la corona delle fate) proprio perchè  il suo ingresso era a forma di corona, disegnata nei millenni passati e regalata, anche quella, a noi, per l’eternità.
Quella grotta era bislunga, alta, ospitale e alle sue estremità  pareva avesse comode poltrone, gradoni naturali, di granito, modellati dal tempo, formatisi  nei secoli e mai intaccati dalla mano dell’uomo.
Una alcova naturale, chi sa!
Ricordo, ci stavamo anche in cento, tanti bambini, più gli adulti e di questi qualcuno era reduce dell’altra guerra passata, quella del 15-18. Si guardavano tutti in faccia, quasi inebetiti, chi parlava, che pregava col rosario  fra le dita, chi bestemmiava perchè aveva lasciato soli  i cani, i porci, vacche e buoi, e la paura dei furti di bestiame, da noi si chiama abigeato, già esisteva.
Dopo circa un’ora in quella imprigionatura volontaria ma obbligatoria , prima in lontananza poi sempre più vicine, sopra le nostre teste, squadriglie di aerei con la croce uncinata rombavano in direzione di Porto-Torres o di Alghero, dove avrebbero lasciato i loro segni a futura tragica memoria.
Gli adulti dicevano che la guerra era devastante, aveva fatto ingenti danni a Cagliari, Alghero, meno a Porto-Torres e Olbia.  Noi non dicevamo di niente ma aspettavamo, impazienti, di uscire da quella grotta, guardavamo nel cielo terso o in un cielo fatto di nuvole grigie, un cane che si avvicinava scodinzolante e pareva meravigliato di vedere tutte quelle persone là dentro e ammassate. Non vedevamo l’ora di essere liberi di giocare, di correre  a spaventare le galline nel pollaio o i maiali nel loro recinto.
Nelle lunghe serate primaverili ed estive, a volte, ci si divertiva a far roteare lunghe canne, ben dritte nel buio, in attesa che qualche pipistrello ci sbattesse ….le corna. Quale vittoria, urli di gioia incosciente per noi, vederli stramazzare a terra, ma anche un po’ di paura.
E c’erano Nerina, Manibianca e Faraone, magnifici cani da caccia e da guardia, ci seguivano sempre, erano i nostri angeli custodi, dall’alba al tramonto e mai abbaiavano o latravano, se non nei casi necessari.
Fra’ Agostino, un frate francescano, arrivava in pieno agosto, di buon mattino, un viaggio che da Sassari lo portava fino a Canaglia, con la corriera della Sita, ed diventava nostro ospite fino al tardo pomeriggio.
Era simpaticissimo, piccolo e barbuto, armato di buona intelligenza e parlantina, perchè  raccontava a noi bambini cento favole divertenti, regalandoci, alla fine, anche un po’ di preghiere.
Andava via felice per la sua missione compiuta, dopo aver ringraziato ed abbracciato fraternamente mio padre che gli aveva riempito ben bene la sua sacca di ogni ben di Dio, da mangiare e da bere:
Due o tre settimane prima della vendemmia, babbo e mamma ci armavano di vecchi coperchi di rame o di alluminio e ci spedivano di buon’ora a far cagnara in mezzo ai filari delle viti,  per impedire ai merli e loro simili
 di tranguggiare, impuniti, interi grappoli d’uva prelibata, nera o bianca che  fosse.
Ed erano altri giorni di allegria e spensieratezza, in quella terra che ci coccolava, regalandoci i suoi frutti più belli e naturali, con tutti quegli amici che venivano, dopo, “a darci una mano”, che voleva dire andare avanti e indietro alla casa del vino per rovesciare quel nettare dentro grossi botti  fatte a metà, mentre il pestatore di acini, a piedi nudi, schiacciava e schiacciava uva che si andava trasformando in vino dal profumo intenso e ubriacante al primo alitare.
Avevo quattro anni, nel 1943, e sono cresciuto in quegli amori, ero e sono fatto di quella terra, una volta pulita,
e là spero di tornare, senza orpelli, senza parole, senza fiori, solo, fra i nitriti dei cavalli, in quei sentieri che sapevano  di sacrifici  mai ostentati, in quei  sapori indimenticabili, rimasti appiccicati
alla pelle, dentro gli occhi, in una memoria  i cui cassettini, di tanto in tanto, si aprono, desiderano luce, amore
e anche carezze per quella vita che è stata e giammai ritornerà, proprio come quell’amore……..perduto
Mentre scrivevo la voce di Lucio Dalla  mi accompagnava, profonda, delicata, inimitabile, come la  poesia della sua vita che sapeva di verità, di rispetto, in quel suo pensare dedicato al mondo che lo circondava e son sicuro che di questo non ne andava troppo fiero.
Grazie Lucio, continua a vivere in noi!
Questo articolo è stato pubblicato su Rosebud - giornalismo online

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