Castelsardo, 7 agosto 2013
Sala
XI del Castello dei Doria
Riporto integralmente l’esegesi che lo
scrittore-poeta Giuseppe Tirotto ha voluto fare, parlando della mia silloge “Nelle falesie dell'anima”, durante la
presentazione della stessa.
Quando
qualche mese fa l'amico Gavino Puggioni mi ha parlato della sua ultima raccolta
poetica e del piacere di poterla presentare qui, a Castelsardo, luogo nel quale
ha da sempre coltivato “affinità elettive” per svariate ragioni, siano
professionali, d'amicizia o di affetti, ha anche scandagliato, con molta
discrezione, la possibilità che fossi io ad accompagnarlo nel disvelamento
della sua opera, in questo pittoresco antico borgo nel quale io sono nato e
dove, eccetto qualche piccola parentesi, ho sempre vissuto.
Attestata
la mia disponibilità, mi ha fatto omaggio del libro che mi ha colpito
immediatamente per il suo titolo accattivante, “Nelle falesie dell'anima”.
Colpito
perché presentava già la coincidenza di richiamare un elemento essenziale e
caratterizzante del titolo della mia prima raccolta di poesia “ La forma di l'anima”.
Quell'anima
che tanto intriga poeti, scrittori, filosofi e teologi, ognuno per il proprio
punto di vista, per la propria idealità, per la propria fede.
La
forma, appunto, ed io, partendo da una singola lirica dove provavo a contenere
l'anima in una dimensione finita, l'ho estesa, poi, al titolo dell'intera
raccolta, anche perché lo stesso titolo mi aveva portato fortuna, facendomi
vincere un premio importante in conseguenza del quale ho attraversato l'oceano,
planando alla Fiera del Libro di L'Avana, a Cuba, dove si sarebbe svolta la
premiazione, avendo, questo Premio vinto, valenza Mondiale. Un'esperienza
irripetibile ed arricchente per il viaggio verso un continente lontano e per il
contatto con la poesia internazionale, specie quella sudamericana, così
similare alle nostre tematiche sarde.
Titolo,
posso dire, azzeccatissimo, anche se, per lo più, noi poeti, il titolo lo diamo
ad opera finita, in quanto, dopo l'incipit, non immaginiamo neppure dove la
poesia stessa ci porterà e molto spesso lo diamo inconsapevolmente.
Ciò,
a proposito de “La forma di l'anima”, ho potuto constatarlo lettura dopo
lettura da parte degli altri, perché quella forma di anima, che nella mia idea
originaria era semplicemente la forma del mio paese, Castelsardo, già nella
motivazione di quel Premio Internazionale, veniva stravolta ma allo stesso
tempo le calzava perfettamente, tanto che ogni volta che veniva commentata
sembrava che fosse riscritta di nuovo, rendendo palese che la poesia sfugge a
qualsiasi classificazione preordinata, così come l'anima non può essere
costretta in nessuna forma.
A
dirla con il professor Nicola Tanda che, commentando solo il titolo, ebbe a dire:
La forma dell'anima? Eh! cosa da niente è....
Ecco,
se io, consapevolmente o inconsapevolmente, mi sono azzardato sulla Forma
dell'anima, l'amico Gavino Puggioni l'ha avventurata tra le falesie, rocce come
si sa impervie, spesso inaccessibili, a volte inviolabili.
Magari,
e questo lo potrà dire solo lui, queste falesie avranno pure un riferimento
materiale e geografico, nel senso che può essersi ispirato alle familiari falesie
di Balai, a quelle celebri di Capo Caccia o a quelle ardite e selvagge
dell'Ogliastra o ancora a quelle ciclo-televisive delle Dolomiti, falesie morte
o inattive queste ultime, a differenza di quelle elencate prima in quanto vive, perché battute
direttamente dal mare nostrum, sardo.
A
parte la differenziazione scientifica, io sono però certo che le falesie di
Gavino siano falesie metaforiche, falesie connotative su cui l'anima inquieta,
di lirica in lirica, s'impenna e precipita e di verso in verso si libra, plana
e scende in picchiata. Non può
essere che così se si leggono le poesie della raccolta, strutturata su quattro
sillogi, dove una delle parole più ricorrenti è indifferenza, una vera e propria ossessione, per Gavino,
l'indifferenza, quasi che egli
aborrisca questo stato di
inerzia, giacché la vita è un meraviglioso miracolo a cui ogni essere vivente,
specialmente l'uomo, debba
prendere parte con tutto sé stesso. Il sacrilegio è attraversare la vita da spettatore
e questo mi richiama una celebre poesia del poeta turco Nazim Hikmet, in una
struggente poesia-lettera dedicata al figlio, dove lo esorta a non passare su questa
terra da inquilino ma di lasciare
un segno del proprio passaggio, di amare tutti gli aspetti della vita stessa,
ma soprattutto di amare l'uomo.
Credo
che chi leggerà il libro di Gavino, tanto di questo troverà, già questo
concetto prima che in versi lo esprime lui stesso nella prefazione Perché
scrivo, dove a corollario delle motivazioni per cui scrive, esalta la Vita
che deve essere vissuta in ogni sua piega, per essa scrive come un eterno
innamorato, in essa rimargina le ferite credute inguaribili, concludendo con
l'esclamazione:
Oh!
cosa non si farebbe per la Vita!
E
già! cosa si potrebbe fare se non si avesse fiducia nella Vita?
Dubbio
che Gavino non si pone, se è vero che l'altra parola ricorrente nel libro,
quasi a bilanciare la detestata indifferenza, è speranza. Speranza nella vita, nell'umanità, nel futuro, sebbene
questo sia stato tradito, violentato, violato da una civiltà avanzata putrida e
maleodorante che nel suo furore consumistico ha lordato l'innocenza originaria.
E questo è il concetto lorchiano del regreso, del ritorno alle origini,
alla purezza del ventre materno, perché chi va avanti, come l'acqua corrente,
s'intorbida e non vede le stelle.
Sarà
per questo che le figure più significative della silloge siano i bambini, i
simboli della purezza assoluta, a cominciare da quello che apre la raccolta,
che vorrebbe aprire un mondo sicuramente migliore, sicuramente più giusto, con
quella chiave simbolica che stringe tra le mani, un mondo dove far sciamare i
milioni di bambini senza sorte, quelli che le statistiche e le agenzie di
rating non contemplano. I bambini
del Darfur, delle bidonville planetarie, i bambini orfani, delle guerre, dei
soprusi, della fame.
La
poesia di Gavino è una poesia particolare, con accostamenti di termini audaci,
a volte talmente distanti e opposti che fanno sprizzare quella scintilla che
Ungaretti definiva la vera poesia!
Talvolta
vi si riscontrano echi surrealistici, in altre la vitalità espressionista delle
tinte forti, esagerate e, in questo contesto, egli lascia fluire nelle sue
liriche emozioni dense, pervase da un misto di speranza e di rassegnazione, in
una atmosfera coinvolgente, sorretta dalla consapevolezza dei valori della vita
in cui crede fermamente.
E
così sono anche spiegate le umane emozioni del sottotitolo che, poi,
tanto sottotitolo non è!
Come
dicevo, questo generoso libro di Gavino è strutturato su quattro sillogi differenti, oltre che per le tematiche. anche per
la misura.
La
prima, la più capiente, che con 34 liriche potrebbe costituire un libro a sé
stante, titolata Del senso
della vita, è aperta dalla
poesia prima accennata, Il bambino con la chiave, che sembra proprio
cercare la serratura giusta su cui far scattare il chiavistello del senso della
vita. Le altre liriche che seguono sono accomunate da quella ricerca corale,
per capire e cercare di spiegare il senso della vita secondo la prospettiva del
poeta.
La
cifra distintiva della seconda silloge è il silenzio, già disvelata nel titolo
ossimorico: Messaggi di silenzio.
Messaggi
che solo il silenzio sa trasmettere, che discendono i gradini del tempo, che
volano su altri pianeti, che gridano negli occhi dei bambini del terzo e quarto
mondo, se qualche volta il quotidiano ne parla, che tacciono, nei nostri, perché senza senso, spesso
rivolti all'effimero.
La
terza silloge è costituita da Pensieri vagabondi, pensieri che spaziano
il mondo conosciuto e quello immanente dell'irrazionalità. Dal Darfur all'Iran,
dalle acque che non riusciranno mai a lavare i misfatti dell'uomo ai cieli vuoti
quando le madri urlano di dolore per i figli che alzano le mani per la paura.
Pensieri
che si fanno rimembranze, rivivendo giochi di bambini o scampoli di vita
studentesca, quando ancora la televisione non c'era. Pensieri randagi, pensieri
picareschi tra Carloforte e l'Argentiera, tra un risveglio e una follia,
pensieri di oggi, di ieri e di domani, perché in fondo la vita è bella e merita
di essere vissuta!
La
quarta silloge, già dal titolo E si fa sera, prelude alla stagione
decadente della vita.
Ogni
lirica, qui, diventa così il resoconto del passato, i toni via via
crepuscolari, non tanto in senso cronologico o esistenziale quanto in termini
letterari, poiché emergono le tematiche e gli stilemi della corrente letteraria
di fino Ottocento, primi del Novecento.
In
effetti il Crepuscolarismo è la versione italiana del più celebrato Simbolismo
francese, il quale, rifiutando ogni forma di poesia aulica, eroica e
celebrativa, si propone di cantare le piccole cose della vita.
Ciò
non significa che la poesia sulle piccole cose quotidiane non sia alta. Anzi,
spesso ha esiti altissimi; d'altronde, cosa c'è di più eroico della
quotidianità che accomuna miliardi di persone?
Così,
eccoli quegli esiti, nei versi di Gavino: gli sprazzi di vita quotidiana, i flashback
di un antico mondo contadino, con falci, aie e covoni, immagini di sbiadite
case di vacanze; ecco riaffiorare, con i ricordi, l'universo interiore dell'innocenza
bambina.
Emblematica,
in questo senso, la poesia Diario breve di giorni lunghi, un vero e proprio diario
di vita che, soffusamente, ripropone l'infanzia mitica nel luogo mitico dell'anima,
il mare di speranza affrontato con una barca che ha consunto e perso pezzi
nell'attraversarla, e ,se pure in disarmo, ha ancora spazio per ricevere carezze,
ancora di speranza e di amore.
In
qualunque modo si cerchi o si dia un senso alla vita, vuoi con messaggi gridati
o silenziosi, vuoi attraverso pensieri
fermi, austeri o vagabondi,
alla fine, sempre si farà sera, inevitabilmente.
Sarà,
allora, importante verificare se nella nostra stiva malandata ci sia ancora
spazio per ricevere quelle carezze di cui ho appena detto.
Giuseppe
Tirotto
Complimenti!
RispondiEliminaLaura
Quattro punti cardinali – ove ognuno vive di luce propria regalano emozioni che si aggrappano in particolare a quel sentire bambino che molto spesso dimentichiamo, creando cordoli affinché il bene possa prevalere su tutto. E’ vero: indifferenza e speranza uniti in un magico bouquet.Berta Biagini
RispondiElimina