In questa antologia delle Edizioni Ensemble è inserito il racconto di Gavino Puggioni
IL PORTO DI POCHINO
Era il primo giorno di dicembre di un anno a venire, forse
il 3000 d.c. ed ero diretto, col monopattino, verso il vicino porto di Pochino
dove, da notizie stellari, avevo appreso che una grande nave di pellegrini
avrebbe salpato, nottetempo, verso le isole sconosciute del Puntino Nero, in
pieno oceano pacifico.
Pochino era ormai diventato un piccolo paese, abitato da
anime disperate in attesa di un avvenire migliore.
Prima, anche mille anni addietro, era stata una città quasi
industriosa, con molti artigiani, molti barcaioli, molti fannulloni, con
qualcuno che si occupava anche di politica, ma senza grandi convinzioni e
principi, solo grandi affari e interessi personali, com'era già accaduto da
altre parti.
Era rimasta anche, indelebile nel tempo, una grande macchia
oscura di terreno inquinato da scorie metalliche e chimiche, velenose alla
terra e all'aria, che vi avevano trovato triste alloggio ad affitto zero e danni incalcolabili alla salute
di quegli abitanti che, con esse, c'avevano convissuto per intere generazioni
Ma ora, da allora, non era rimasto più niente se non una
vecchia e solida torre, delle case diroccate e poco abitate, vie e viali senza
nome, senza alberi, solo incroci che non servivano a niente, non ci passava più
nessuno. Chi sapeva ancora pregare trovava rifugio e fede in una antichissima
basilica
sopra un colle che voleva essere un monte ma non lo era.
C'erano tante croci a ricordare un dio scomparso, a volte generoso, a volte
impietoso, ognuno diceva la sua.
A Pochino, però, era rimasto il porto, non quello piccolo,
ma quello grande grande, fatto di cemento e granito, di lampioni elettronici
che si accendevano quando qualcuno si avvicinava e si spegnevano quando nei
dintorni non circolava anima viva.
Era talmente grande che l'occhio poteva spaziarvi
tranquillamente, in solitudine, tanto di navi o petroliere, di transatlantici o
barche a vela enormi, nere o bianco-nere, con capitani d'industria nostrani
battenti bandiere di altri piccoli mondi, non v'era traccia alcuna.
Maree di gabbiani a riposo s'alternavano nel silenzio più
assoluto, i loro movimenti simili a disegni animati, proprio come quelli dei
cartoni di una volta, in televisione, ormai spariti da tutti gli archivi di
conoscenza umana
In quest'ultimo millennio tutto s'era polverizzato, i ricchi
sempre più ricchi s'erano trasferiti in scatolette di alluminio trasparente e
da li continuavano a rubare, ma solo pane e acqua per la sopravvivenza, mentre
i poveri erano rimasti nella loro peggiore povertà, abitanti di quartieri
dismessi, in preda alle ombre del passato, in attesa di un altro messia che non
si decideva a tagliare le acque e lasciar loro almeno qualche pesce.
Il mio monopattino aveva quattro ruote motrici, due davanti
e due dietro e filava che una bellezza, soprattutto in terra battuta ed aveva
anche una piccola dinamo che dava luce ad una lampadina regolabile, posta al
centro del manubrio aerodinamico, provvisto, alle sue estremità, di guanti
anti-urto-freddo.
Correvo assai in discesa, in pianura consumavo scarpe a
ripetizione, visto le spinte e le accelerazioni che dovevo imprimergli per
raggiungere le mie mete preferite.
Arrivai a Pochino nel tardo pomeriggio, attraversando un
lungo vialone disalberato, abitato da cani randagi, gatti consimili, qualche
pecora e qualche bovino scarnito, questi ultimi graziati da un gruppo di
disoccupati accecati dalla polvere, dalla fame e dalla mancanza solita di
lavoro.
Entrai nel porto dopo aver attraversato, come fossero a
guardia, lunghi ed arrugginiti cancelli, lasciati perennemente aperti per
favorire l'afflusso di passeggeri, ormai assenti da circa mille primavere.
Io facevo parte delle nuove ri-generazioni ed ero curioso di
sapere la verità su quei pellegrini che si dovevano imbarcare per raggiungere le
isole del Puntino Nero.
Erano le 18 di quel primo dicembre, era buio pesto a
Pochino, ma pensai anche a Nopolis e Gevecchia, sempre ai bordi del nostro
mediterraneo.
Il porto mi era apparso subito come una immensa sala da
ballo, illuminatissima, piena, affollata
di ombre immobili, in silenzio, gli sguardi verso il mare
che rifletteva quelle lame fluorescenti di luci inutili e spropositate e
pareva rallegrarsene.
Col mio monopattino irruppi tra centinaia di corpi, ma erano
davvero tanti e di più, perchè quel piazzale granitico poteva contenerli e,
dopo, li sfiorai tutti, quegli esseri umani, abitati da donne, da uomini,
giovani e meno giovani, ma non vidi bambini, e questo non mi dispiacque.
A primo acchito non mi sembrava ambiente per loro, i
pargoli.
Mi mischiai, come si dice, alla folla, sentii i rumori del
silenzio, dei bisbiglii, parole afone ma anche
il rumore delle scarpe, dei sacchi a pelo trascinati su
carrozzine scalcinate, sentivo gli umori e gli odori della pelle, questi sì un
po' pesanti ma non ci facevo caso.
Era come un cerchio dantesco ridipinto, dalle pennellate
discontinue e confuse.
Mi incuriosirono, invece, alcuni cartelli, pensai vecchi di
centinaia d'anni, che dicevano -
mamma sono qua, sto partendo – eccomi, ci sono anch'io!
--viva il puntino nero, siamo felici! --
andiamo in paradiso! --viva il nostro capitano! -- la vita è
bella!...--
E chi è il vostro capitano? domandai
Forse capitan Nemo! - in coro
Beati voi – andavo dicendo – ma la nave dov'è?
La nave sta arrivando, è dietro quelle nuvole, fra poco
allungherà le sue braccia e ci porterà
tutti a bordo. che bella che è la felicità!
Ma la nave come si chiama?
Felicità, l'abbiamo appena detto!
Ma che ore sono?
E' la ventesima ora e partiamo alla ventiquattresima, in
piena notte.
Allora, buonanotte!
Un po' di fantasia e un po' di verità ben mescolate e il racconto è degno del titolo dell'antologia. Bravo Gavino!
RispondiEliminaGiovanna