Oggi
il mondo moderno a tecnologia avanzata esclude a priori ogni autorità e
magistero spirituale che non provengano da essa, e la poesia si vede quasi
ridotta a prendere ad interlocutore il proprio «io» («le falesie dell'anima»),
o a inventarsi degli interlocutori surrogati, o finti, a prodursi nella zona di
scocca tra un talismano quasi magico come il violino di Beethoven e un italiano
che sarebbe la traduzione della musica di quel violino; e lo stile diventa
il risultato di un rapporto, il risultato di un dialogo tra una tematica
«d'occasioni» e l'istituzione linguistica per eccellenza qual è il
linguaggio poetico. Dal punto di vista fonetico e lessicale, nelle parti in
versi, la poesia di Gavino Puggioni riceve sicuramente uno stimolo da
questa contaminazione a distanza, ma rimane pur sempre all'interno della
dialettica tra conservazione e innovazione di novecentesca memoria, non può
sfuggire alla dialettica che il Novecento ha inaugurato con le avanguardie
storiche.
Siamo
certo tutti figli del Novecento, il secolo che ha espiantato la poesia dal
corpo umano quale organo inutile, un po' come si faceva un tempo quando i
chirurghi espiantavano le tonsille ai bambini. Ma è un espianto che ha delle
conseguenze non, propriamente, tutte positive, o che comunque porteranno dei
risultati che soltanto il futuro potrà giudicare.
Giorgio Linguaglossa
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