«Quanta vita» si leva una voce alta di bambino
dove uccelli e uccelli strappati al pigolio di ramo
in ramo
filano tra la perdita di foglie del bosco nel
freddo controluce
e tracciano una scia di piume e strida, lasciano
quelle rotte frasi
d’un discorso arrivato al dunque, festa
e fuga, mentre uomini appostati
ne preparano lo sterminio; «quanta
vita» ripetono quegli ultimi più luminosi
sbattimenti d’ali
per tutta la boscaglia tra mare ed acquitrinio.
E qui, in luoghi ben lontani, ma in un tempo
che come quello non perdona, mentre
incrocio per questa via di banche
senza un cenno d’intesa
compagni d’altri tempi
trascinati da un vento oscuro tra le porte vigilate
e li vedo ansiosi, simili ad uccelli ritardatari,
vinti
e arsi dentro da un fuoco indefinibile,
consunto, non ancora spento, presunzione
di forza dove non è forza, orgoglio
d’una fede che non è fede, «quanta
vita» ripete quella voce di nove anni
alla coscienza troppo adulta, troppo
chiara, di nuovo «quanta vita»
ché non si percepisce mai la vita
così forte come nella sua perdita
(Mario Luzi - Dal fondo delle campagne, 1965)
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