Camminando in queste radure,
una volta selvagge,
mi sembrava di attraversare
la parte estrema di un mondo
sconosciuto, oltre il quale
viveva il nulla.
Il silenzio, il cielo, il
mare che, all’improvviso,
ti abbracciavano, ti costringevano
a pensare e a non pensare,
tanto forte era l’emozione di
trovarti lì, da solo,
in cima a quelle colline che
sapevano d’altri tempi.
C’era e c’è ancora una
chiesetta, arrampicata,
che doveva servire alle
preghiere delle mogli,
delle sorelle, delle mamme,
tante, di quei minatori,
che entravano in quelle
bocche all’alba
e ne uscivano quando il buio
era padrone di tutto.
Scendendo per la sua strada,
tortuosa e fangosa d’inverno,
impervia e polverosa
d’estate, si aveva la sensazione,
comunque, di dover
raggiungere un luogo amato da pochi,
ma di un amore viscerale,
coinvolgente, forse struggente.
Era, doveva essere un parco
romantico, accarezzato o
violentato, ma solo dai venti
e dalle piogge.
Semmai, calpestato da amanti,
degni di quella natura
rigogliosa e orgogliosa nei
suoi splendori.
E dopo, più giù, il mare, due
spiagge,
incastonate in questa piccola
baia dedicata a San Nicola,
abbracciato a tante
insenature, fatte di rocce d'argento
sopra le quali quella stessa
natura era ed è abituata ad adagiarsi.
C’era il villaggio che
accoglieva quelle poche famiglie
che avevano il coraggio di
abitarvi, circondate da rumori
cupi e continui, altalenanti
ma che, ormai, facevano parte
della loro vita.
Quel villaggio, umano e di
umani, ora non c’è più, è stato cancellato
dai tempi moderni.
Ne sono rimaste le più
piccole tracce, per rimandarle,
come si dice, alla memoria dei posteri.
È rimasta, nonostante tutto,
la grande testimonianza della
miniera, ischeletrita, quelle
impalcature di legno e ferro,
da dove, prima, si accedeva
alle entrature di ciascuna galleria.
Il mare, tranquillo o
spumeggiante per il maestrale, era una
presenza quasi rassicurante;
si rispecchiava sempre nel solito
quadro, niente lo intimoriva,
niente lo sporcava,
se non la ruggine di qualche carrello
vecchio e sfasciato.
Lo stesso mare, però, pareva
lamentarsi di quello che poteva
dare, e in abbondanza, ma che
pochi prendevano. I suoi
frutti erano lì e si beavano
nel loro elemento, giocando con
le mareggiate e abbattendosi
sui litorali di pietre levigate.
Quei pochi, pochissimi arditi
che osavano pescare non
erano nemmeno del posto.
Arrivavano, magari di notte,
e, alla luce di qualche lampara,
scagliavano due o tre
bombette e il gioco era fatto.
Il pesce, stordito, veniva a
galla e si faceva prendere nel
sacco, anzi nei sacchi di
juta, docilmente e senza
spargimento di sangue.
Nel villaggio, tuttavia, si
viveva di una vita normale, fatta di
sacrifici, di attese, di
emozioni e di dolori mai ripagati.
Le giornate erano tutte
uguali, compresa la domenica, anche
se questa doveva essere
dedicata al riposo o alla preghiera.
Quella grande madre, che era
la miniera, rigurgitava
continuamente i suoi tesori
che dovevano essere colti e
portati via, in altre terre,
in altre regioni.
L’arricchimento era per quella
società che gestiva, da
lontano, l’affare;
l’impoverimento era per tutti, compresi
quelli che venivano mal
pagati per frugare in quelle viscere
profonde e portar via più
materiale possibile.
E questo impoverimento
riguardava anche il territorio, con
le sue montagne spaccate,
scavate, fatte a pezzi, così che
anche l’erba non riuscì mai
più a crescervi.
Vi crebbero, invece, le
malattie da quelle polveri e chi ne fu
colpito ebbe a pagare fino
alla fine dei suoi giorni.
Le spiagge senza sabbia,
colme di ciottoli rotolanti, grigi,
bianchi, neri, e striati
anche di rosso arrugginito,
erano sempre uno spettacolo
da vedere, solitarie o al
massimo con qualche branco di
buoi e cavalli che vi
andavano per fare la loro
indisturbata passeggiata.
Ti invitavano, quando il mare
era una distesa d’acciaio, a
meditare, a proporti in
maniera quasi primordiale, allargare
le braccia, respirare a pieni
polmoni e spaziare nell’infinito
di quell’orizzonte che
credevi di vedere, ma era solo un miraggio.
Anche i gabbiani sapevano di
essere soli, tant’è che i loro
giochi, le acrobazie, i loro
incroci su quelle acque
sembravano più liberi,
ispirati a quello che li circondava,
in una tavolozza di colori,
sempre sgargianti ma naturali.
Ora, oggi, adesso, a distanza
di tanti lustri, quella terra,
chiamata Argentiera, è un
cumulo di quello che è stato e di
quello che vorrebbe essere.
Un gran pasticcio, di cui
l'uomo è attore, l’uomo che ha stravolto
ogni cosa, che ha dimenticato
il rispetto di quel suolo,
sopraffacendolo di intuizioni
orride, cercandovi una
soluzione mai arrivata,
continuando a pasticciare ed
offendere quel lembo di
ricordi intimi, di uomini e donne
che hanno sofferto e gridato
inutilmente nel silenzio.
Ancora e per una volta
all’anno, per due lunghi mesi,
è meta di popolazioni
incivili, arrivati da altri mondi incivili,
che vogliono incivilizzare
quello che loro non appartiene,
tanto, dopo, fanno rientro
nelle loro stesse inciviltà.
Quel pezzo di terra
continuerà a lamentarsi, anche se
continuerà ad offrirsi con le
sue bellezze ormai contaminate,
sporcate e vituperate da
tutte quelle imprese di individui
post-moderni, incapaci di
sentire, di vedere, incapaci di
amare ciò che la Natura aveva
loro regalato.
Gavino Puggioni
Da L'arcobaleno in giardino
Da L'arcobaleno in giardino
Hai fatto un ritratto suggestivo e interessante, Gavino,di un luogo,L'Argentiera,che ho visitato diverse volte, e che ogni volta che vi torno mi offre qualcosa di nuovo. Luoghi ricchi di paesaggi straordinari, che suscitano emozioni e stupore.
RispondiEliminaIl colore del mare,la storia mineraria, la presenza ancora viva di uomini che conoscevano bene la fatica e l'impegno assiduo in un lavoro che per tanti significava avere di che nutrirsi.
Capisco quel che provi nel visitare oggi L'Argentiera, il senso di abbandono, di non rispetto da parte di chi dovrebbe tutelare quello che è un bene prezioso per tutti.
Ciao, Gavino, a presto.
Piera