Fra le cose che il mare getta
si cerchino le più disseccate,
zampe violette di gamberi,
testine di pesci morti,
soavi sillabe di legno,
piccoli paesi di perla,
si cerchi ciò che il mare ha sfatto
con inutile insistenza,
ciò che ha rotto e squassato
e abbandonato per noi.
Sono petali inanellati,
cotoni della tempesta,
sterili gemme dell'acqua
e ossa gracili d'uccello
che sembra ancora volare.
Si svuota il mare delle sue scorie,
il vento gioca con gli oggetti,
il sole ogni cosa abbraccia
e il tempo vicino al mare
conta e tocca quanto esiste.
Io conosco tutte le alghe,
gli occhi bianchi della rena,
le piccole mercanzie
delle maree dell'autunno
e, come un gran pellicano,
edifico umidi nidi,
spugne che adorano il vento,
e labbra d'ombra abissale,
ma nulla è più lacerante
dell'indizio di un naufragio:
il dolce legno scomparso
che fu morso dalle onde
e sdegnato dalla morte.
Bisogna cercare cose oscure
in qualche parte della terra,
in riva al silenzio azzurro
o dove è passato il treno
di una furiosa tempesta:
restano segno sottili,
monete di tempo e d'acqua,
detriti, celeste cenere,
e l'ebbrezza intrasferibile
di prender parte ai travagli
della spiaggia spopolata.
Pablo Neruda
da Poesie
(1924-1964)
A cura di Roberto Paoli
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