L’utopia non è un’illusione
un sogno
una fantasia
lanciata nell’impossibile.
L’utopia è un progetto
l’invenzione di un possibile
all’interno della realtà quotidiana
non ancora realizzata,
ma che forse si realizzerà.
Il seme dell’utopia
non fa crescere un albero solo
altissimo e robusto,
come la sequoia e l’ontano
che dominano il paesaggio
e si vedono da lontano.
Il seme dell’utopia
è tanti semi sparsi qua e là,
non si sa bene dove.
Qualcuno crescerà
qualche altro si seccherà
aggredito dalla bufera
o dalla siccità.
Forse qualcuno spunterà
in una pietraia,
forse in un giardino di rose,
forse persino in una stanza
dentro un vasetto di coccio
tinto di verde speranza.
L’utopia non è un albero unico
con un immenso tetto di foglie
sotto il quale si può raccogliere
una fitta assemblea.
Il seme dell’utopia è un’idea,
è tante idee
nate nella nostra testa
o magari nel folto della foresta
dove ci facciamo strada
scansando tronchi secchi caduti a terra
o grovigli di rovi e di spine
per far giungere
a eventuali piantine
aria e luce.
Il seme dell’utopia è parlare insieme
Tenendoci per mano,
noi tutti così diversi,
noi tutti così uguali,
ragionando su tutto ciò
che fa parte del nostro quotidiano,
sui nostri sì
sui nostri no;
ragionando sulle ragioni delle nostre divisioni,
ma soprattutto su ciò che abbiamo in comune,
scambiandoci ogni esperienza
che migliori
la nostra esistenza
e la renda
più dolce e vivibile.
In comune abbiamo tante cose:
dobbiamo tutti mangiare
possibilmente attorno a una tavola
socievole e conviviale.
Abbiamo tutti la pelle delicata
e vulnerabile.
Una carezza è certo più piacevole
di un livido o una coltellata.
Riconosciamo
che qualcuno ha un’abilità speciale
nel trasformare le cose,
nel fare di un informe pezzo di creta
un’anfora bella e colorata
che a tutti darà allegria,
o nel catturare l’energia
invisibile nell’etere
per illuminare le notti
o mettere in movimento
le lavatrici o qualsiasi strumento
che renda la vita più facile.
Chiediamo loro di usare quello
che sanno fare,
non per obbligarci a morire anzitempo
tra grandi sofferenze,
ma per aiutarci a vivere
con qualche ricorrente momento
di gioia e di serenità.
La natura, madre severa,
ci manda anche terremoti e cicloni.
Ma perché aggiungere noi
altri disastri
di cui si può fare a meno,
come le guerre,
la pena di morte,
le torture nelle prigioni?
Noi tutti così diversi,
noi tutti così uguali,
possiamo forse aiutare a crescere
arbusti cespugli e boccioli
sparsi qua e là,
un giorno o l’altro ci daranno
fiori e frutti
per tutti
di mille forme e di mille colori.
Li raccoglieremo con grandi feste
in mazzi e ceste,
li appenderemo sui recinti
di etnie e di nazionalismi
artificiali
al posto delle armi micidiali
così care ai militari,
al posto di fasci di tratte e di cambiali,
così care agli usurai,
al posto di veleni globalizzati
che ci vendono ai supermercati,
sostituendo alle chiusure
cancelli senza serrature.
L’utopia è camminare
tenendoci per mano
noi tutti così diversi
noi tutti così uguali,
ma uniti nel principio
che non è filosofia o religione
ideologia o codici arbitrari,
ma ciò che è comune a tutti,
come riconoscere oggi la norma scritta universale
che ci dovrebbe assicurare
il diritto di vivere.
O vita, o mondo, o natura,
o gente che amo appassionatamente,
volevo offrirvi una pietruzza che brilla,
una minuscola scintilla
di reciproca comprensione.
E invece ho soltanto da offrirvi
una poesiola di versicoli maldestri
che non dicono niente di nuovo.
Ho aperto la finestra
e ho visto seduto sul marciapiede
un bimbo marocchino,
figlio di un mio vicino,
che si esercitava in italiano,
ripetendo ad alta voce,
sul ritmo dei versetti del Corano,
un vecchio adagio toscano,
finale della favola:
Stretta la foglia,
larga la via,
dite la vostra,
ché ho detto la mia.
Joice Lussu
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